UNIVERSITA’
UMILIATA
CORROTTA
MAFIOSA
Questa di Nicola è una storia vera. La storia di uno studioso eccellente e del suo vano, amaro e deprimente tentativo di insegnare nel nostro paese. Infatti in Italia è sempre stato difficile e forse ora impossibile entrare all’Università per merito. Nel caso raro che si riesca , per un meccanismo paradossale , il Sistema ( “o’ Sistema” alla Saviano bisognerebbe dire) dei Baroni ti punirà: ti punirà perché sei bravo e ti punirà perché non hai accettato il Sistema. Lo farà con una lenta progressiva emarginazione, un mobbing macabro che tenterà di umiliarti prima e di espellerti poi.
Nell’università decidono i Baroni: chi deve vincere il posto e cosa fare dopo. I docenti che dirigono dipartimenti, che hanno cattedre che hanno potere. Per loro conta il Potere e non il Sapere. E non c’è “sapere” che possa scalfirne il potere. Lo scandalo di “parentopoli” (piazzare figli,nipoti e amanti all’Università) è solo un pezzo di uno scandalo più vasto: creare una classe docente che si sottomette, schiere di vassalli raccomandati che ottengono il posto più per giochi e trame di favori e di controllo che per valore scientifico. Di conseguenza, non c’è solo un’ingiustizia verso i meritevoli. La conseguenza è che milioni di studenti ogni anno in Italia vengono formati da docenti sempre meno preparati o per niente preparati, rispetto agli altri esclusi. In questo modo a poco a poco affonda l’Università e affonda con lei il nostro paese e la classe dirigente del futuro. Il futuro stesso annega. Uno tsunami lento e inesorabile.
Tra i tanti malanni italiani, dopo la Casta della politica, dopo la Gomorra della criminalità, di sicuro c’ è quella dei Baroni dell’Università. Mettono in scacco la riserva di progetti e di intelligenze. Li umiliano, li cacciano di fatto. Quando un cervello in fuga perde un concorso immeritatamente, non perde solo lui, perde tutto il Paese. Perde la qualità dell’insegnamento, perde a catena tutto il sistema della formazione e la cultura di una nazione. Dico “Università” e intendo tutto il corpo malato del nostro sapere accademico. Ci sono parti buone, isole di grande qualità, aree decenti, ma nel suo complesso il male è steso un po’ dovunque. Università corrotta, nazione infetta. Al neo professore non verrà dato nulla da fare, invece di insegnare, dovrà subire ostracismi vari e un’odissea fatta di mobbing, di mezzi avvertimenti mafiosi, di inattività forzata che lo porterà ad una diaspora individuale alla ricerca di un altro posto in cui poter mettere a frutto una preparazione ,una passione, che proprio dall’università italiana è uscita. Università in cui c’erano di sicuro i Baroni ( che vengono contestati dal ’68, e poi ancora nel ’77, quando a diventare i Baroni erano gli ex del 68 e ora la generazione del ’77 di sicuro si è insediata e baroneggia nell’Università). In ogni caso i “vecchi” Baroni erano per metà uomini di potere e per metà realmente ancora docenti. A loro magari veniva contestato il Sapere di cui erano portatori a cui si opponeva un Sapere alernativo. Oggi ai Baroni non interessa più il Sapere e non interessano gli studenti. Interessa solo il Potere e una cattedra e un dipartimento è uno snodo di favori, consulenze, finanziamenti e connivenze con la politica. I Baroni sono signori incontrastati di questa landa desolata in cui si aggirano folle di zombie: gli studenti rassegnati, ai quali è riservato un destino di precarietà e sottomissione. Il problema non è mai cosa insegnare, ma a quale casato, a quale potentato appartieni. Anche se tutto questo provoca amarezza anche se rende sconsolati di fronte all’ennesimo pezzo di paese senza controllo , si spera sempre che emerga chiara la necessità per tutti , perché l’università è di tutti , di ribellarsi allo strapotere dei Baroni e dei loro complici e non lasciare che lo faccia il solito manipolo di poche decine di migliaia di studenti… Vi è un degrado morale della nostra classe dirigente, dei nostri “uomini di cultura”. Qui restiamo noi, in un paese senza speranza. No, mi correggo: con un po’ di speranza se ancora gli scrittori e non solo Saviano e gli uomini onesti,pieni di buona volontà, hanno la passione della denuncia civile.
Dalle umiliazioni inflitte ai giovani “cervelli” messi in fuga, agli ipocriti bla-bla a favore della ricerca, dalle carriere spettacolari a dispetto del merito, agli stipendi che mortificano i più bravi in nome dell’anzianità, dal familismo accademico, all’incapacità di rinnovarsi, confrontarsi, attirare studenti e professori dall’estero. Un libro che, senza concedere nulla alla demagogia, è il più duro atto di accusa contro l’università italiana, vista dall’interno.
L’università italiana è malata da tempo, prigioniera di interminabili diatribe su ogni minuzia normativa e di inutili appelli al civismo e alla magistratura. Un luogo ingiusto, che favorisce i privilegiati e non incoraggia i più meritevoli. Un’organizzazione che non può funzionare, priva com’è di adeguati incentivi e meccanismi di sanzione. Perché nelle aule universitarie italiane nessuno viene premiato se ha successo nella ricerca e nell’insegnamento. E nessuno paga per i propri fallimenti. E’ la fotografia impietosa di una catastrofe educativa che pesa sul futuro dell’Italia, ma anche la coraggiosa proposta di alcune riforme semplici e radicali, per rompere definitivamente con decenni di palliativi.
Praticamente ogni ministro ha legato il proprio nome a una rivoluzione dell’università italiana, suscitando dibattiti infiniti su ogni comma di legge. Ma un osservatore esterno che guardasse ai risultati invece che ai mille rivoli delle normative non si accorgerebbe di nulla, eccetto che di un aumento esponenziale della regolamentazione e del clientelismo.
Il tema essenziale è che l’università italiana non si riforma con nuove ondate di regole, prescrizioni e controlli, né con gli inutili appelli al civismo e alla magistratura. Ciò che serve è una cosa sola: abbandonare l’illusione di poter controllare tutto dal centro e introdurre invece un sistema di incentivi e disincentivi efficaci, dove sia nell’interesse stesso degli individui cercare di fare buona ricerca e buona didattica ed evitare comportamenti clientelari. Un sistema in cui ogni ateneo possa fare quello che vuole, ma dove chi sbaglia sia chiamato a pagare. Un sistema che elimini la straordinaria iniquità attuale, in cui le tasse di tutti finanziano l’università gratuita dei più abbienti.
La realtà universitaria ha uno stampo «mafioso» e che combattere da soli è inutile. Il gioco dei professori universitari è un gioco pesante, in cui non sono coinvolti soltanto loro. Quelli che stanno nell’università lo sanno bene ma nessuno denuncia e intanto le Università si riempiono di ricercatori e associati vincitori di concorso pilotato che non fanno praticamente nulla e che non sono nemmeno fisicamente presenti presso le sedi universitarie. Il lavoro viene portato avanti dai precari e le Università ricevono i finanziamenti in rapporto alla produzione scientifica di questi ultimi.
Quelli che si consumano all’interno delle Università , in modo sempre più triste e sistematico, d’altra parte, sono gli intrecci malati delle politiche basate sul potere accademico e sul modo in cui averlo, permette di avere soldi e relazioni importanti fuori dell’università. Mafioso è il clima che si respira dentro troppe università italiane e il termine mi sembra giusto perché davvero mafioso è il sistema che regola gli accessi a tutti i livelli, dal dottorato di ricerca al concorso per professore ordinario.Se perdi un concorso puoi fare ricorso, ma due cose sono certe: Il Tribunale Amministrativo non entra nel merito della decisione presa ma valuta soltanto se sono stati fatti degli errori formali;in secondo luogo ciò non avverrebbe prima di quattro anni e tutto quello che si può ottenere è una pura e semplice ripetizione del concorso.Puoi anche fare un esposto alla Procura della Repubblica,ma sicuramente non accade niente,perdi solo dei soldi e del tempo.
C’è una singolare ma in fondo naturale coincidenza, nelle università, fra la chiusura a riccio che è una caratteristica inevitabile di tutti i sistemi mafiosi e la povertà dei contributi culturali a cui essi danno luogo. Si respira sempre male nelle stanze chiuse, dove l’aria non entra, e le attività accademiche in cui il ricambio si basa solo sulla produzione di persone incapaci di dissentire e di muoversi in modo libero e originale nel campo della ricerca, risente della mancanza di aria. Non produce niente. Con il risultato, paradossale ma inevitabile, di ribaltare la situazione.
L’esclusione delle teste pensanti dall’università si è tradotta lentamente negli anni, infatti, in una esclusione di fatto dell’università, nei settori in cui ciò accade, dal mondo della ricerca e della cultura. L’abbassamento che si è determinato, in poco più di trenta anni, nella stima di cui godono i professori universitari ha trasformato quelli che un tempo erano dei riferimenti culturali in macchiette: detentori di un potere «baronale» desueto utile solo a sistemare i loro figli e nipoti e a guadagnare soldi: lavorando altrove, ma continuando ad esercitare un potere cieco ed assoluto sulle persone giovani che nell’università con la U maiuscola credono ancora. Soprattutto se hanno, un curriculum importante: testimonianza del fatto che diventerebbero, se li si facesse entrare, scomodi sul piano etico e imbarazzanti sul piano scientifico.
So bene che esistono eccezioni importanti nelle varie università. Il problema, tuttavia, è che le isole funzionanti sono, appunto, eccezioni che riguardano, in particolare, alcune facoltà.
I rimedi sono lontani. I poteri accademici hanno in comune con la mafiosità anche questo, la capacità di essere presenti nei luoghi della politica dove si dovrebbe (ma non si può) decidere contro di loro. Basterebbe nel merito, infatti, obbligare i docenti alla presenza sui luoghi di lavoro, escludendo dall’attività e dai concorsi quelli che non la assicurano. Affidandosi ad esperti stranieri ed a sedute pubbliche per i concorsi, magari, o a criteri standardizzati (come accade ormai in tutto il mondo) per la valutazione delle attività scientifiche e di insegnamento. Facendo, cioè, delle cose semplici e normali. Quelle per cui serve quella volontà politica che manca solo nei casi in cui conviene a chi comanda dare ascolto ai «mafiosi» in grado di condizionarlo.
La mafia dei baroni
Metodi da Cosa Nostra, per gestire il potere negli atenei, inchieste sui concorsi, già decisi prima del bando, a favore di parenti e allievi. Ecco i risultati choc delle inchieste delle procure sui professori
Mafia. Il guaio è che non sono solo i magistrati a usare questo termine. Adesso anche i docenti più disillusi citano il modello di Cosa nostra come unico riferimento per descrivere la gestione dei concorsi nelle università italiane. Proprio nei luoghi dove si dovrebbe costruire il futuro, prospera una figura medievale capace di resistere a ogni riforma: il barone. Un tempo i suoi feudi erano piccoli, poteva controllare direttamente vassalli e valvassori, mentre doveva piegarsi davanti a un solo re, lo Stato. Ora invece il numero dei docenti e degli atenei è esploso. C’è da corteggiare aziende e fondazioni, mentre spesso bisogna anche fare i conti con le Regioni. Così l’ultima generazione di baroni per mantenere intatto il potere ha rinunciato a ogni parvenza di nobiltà accademica e si è organizzata secondo gli schemi dell’onorata società. Questo raccontano gli investigatori di tre procure che hanno radiografato l’assegnazione di decine e decine di poltrone negli atenei di tutta Italia, dalle Alpi alla Sicilia. Un terremoto con epicentro a Bari, Firenze e Bologna che vede indagati un centinaio di professori e che ha messo alla luce gli stessi giochi di potere in tutti gli atenei scandagliati. Scrive il giudice Giuseppe De Benectis: “I concorsi universitari erano dunque celebrati, discussi e decisi molto prima di quanto la loro effettuazione facesse pensare, a cura di commissari che sembravano simili a pochi ‘associati’ a una ‘cosca’ di sapore mafioso“. ‘Sistema mafioso‘ vuole dire ‘cupole di gestione’ delle carriere e degli affari universitari, spesso camuffate come gruppi democratici di rappresentanza o gruppi di ricerca.
Se i giovani più promettenti emigrano non è solo questione di risorse; se la ricerca langue e i policlinici sono sotto accusa, la colpa è anche del ‘sistema’, che fa persino rimpiangere il passato: “Una volta si parlava di ‘baroni’. Adesso i numeri (anche dei docenti) sono cresciuti. Al posto del singolo barone ci sono i clan e i loro leader, che non necessariamente sono i migliori dal punto di vista della ricerca…”. “La situazione non sembra migliorata: baroni per baroni, sistema mafioso per sistema mafioso, forse i vecchi ‘mandarini’ sapevano maggiormente conciliare il loro interesse con quello generale. La difesa delle posizioni conquistate dal ‘gruppo’ riusciva, in parte, a diventare anche fattore di progresso. Sicuramente più di quanto accada adesso”.
Cattedre-immortali
Come nelle cronache del basso impero, i nuovi baroni non si limitano a spadroneggiare nei loro castelli, ma creano alleanze con altri signorotti, in modo da proteggersi l’un l’altro e dilagare nell’immunità. Eppure ci sono state prese di posizione dirompenti, come quella di Gino Giugni, che nell’estate del 2005 denunciò in una lettera aperta ai professori di diritto del lavoro “la gestione combinata nella selezione dei giovani studiosi”. Il padre dello Statuto dei lavoratori chiedeva che “tutti i colleghi di buona volontà” unissero il loro impegno per riportare serenità, trasparenza, e ancor più equità nelle scelte accademiche. Raccolse un plauso tanto ampio quanto generico. Insomma, nessuno ebbe il coraggio di fare un nome o denunciare un concorso specifico. Oggi Giugni spiega di non essere pentito di quella sortita. Da vecchio socialista si sforza di mantenere un ottimismo di principio, ma ammette: “Da quello che mi raccontano, temo che non sia cambiato proprio nulla”. La razza barona infatti gode di un privilegio tra i privilegi: quello dell’immortalità accademica. Gli effetti concreti dell’intervento della magistratura sono limitati,se non totalmente inutili: le sentenze non riescono a scalfire le poltrone. Ai tempi biblici della giustizia penale si sommano le controversie civili e amministrative, con ragnatele di ricorsi incrociati. Alla fine, persino il baronetto riesce quasi sempre a conservare il feudo ereditato dal padre in violazione d’ogni legge. Il caso più assurdo è quello del concorso di otorinolaringoiatria bandito nel 1988: ci sono state dieci sentenze, confermate pure dalla Suprema corte, centinaia di articoli di giornali, almeno quattro libri e una decina di interrogazioni parlamentari. Il professor Motta senior è stato condannato, eppure il professor Motta junior continua a detenere legalmente quel posto da 18 anni. Se l’immortalità è garantita anche nell’immoralità in caso di giudizi definitivi, facile immaginare il colpo di spugna che calerà con l’indulto sugli ultimi scandali universitari. Tutte le accuse di abuso in atti d’ufficio, il reato classico delle selezioni addomesticate, verranno spazzate via: resteranno solo le più gravi, quelle per le quali viene contestata anche l’associazione per delinquere, la corruzione o la concussione.
All’università ci sono infatti uomini d’onore: ogni parola è debito e ogni impegno è un dovere, da hombre vertical. Verticale nel senso che se il papà insegna, un giorno o l’altro insegnerà anche il figlio. La teoria della diramazione per via successoria, la cosiddetta verticalizzazione della cattedra, è una realtà.
Quando la linea verticale si interrompe, accade che si profili quella orizzontale, moglie, se esiste, o anche solo fidanzata.
Per fare carriera ,non bisogna fare buona ricerca e buon insegnamento, ma esercitare altre capacità, come l’attrazione sessuale oppure il servilismo“.
Il meccanismo di funzionamento di concorsi e nomine nelle università italiane è fondato non su criteri essenziali quali merito, capacità e bravura, ma esclusivamente su nepotismo e baronie.
Lavorano tre ore al giorno e arrivano a guadagnare 10mila euro al mese; vengono assunti in numero doppio rispetto alle necessità; per far carriera spesso vige il nepotismo più assoluto: non si tratta dei politici ma dei professori universitari.
Le 77 università italiane sono in gran parte coi conti in rosso. Spesso si trovano al limite del commissariamento. E anziché tagliare sulla spesa corrente, preferiscono diminuire i fondi della ricerca. Negli ultimi anni c’è stata una moltiplicazione delle cattedre. In pratica, sono stati banditi 13.232 posti da associato o da ordinario e poi creati 26.004 idonei. Nel 99,3% dei casi i concorsi hanno promosso candidati senza che l’ateneo avesse il posto per loro. E i costi per il personale sono lievitati a dismisura: quasi 300 milioni di euro per coprire le nuove qualifiche. Nella maggior parte dei casi si tratta di persone che già insegnavano nello stesso ateneo che però, avendo avuto l’idoneità per concorso, hanno diritto all’aumento di stipendio.
Uno stratagemma, che serve per assumere l’assistente “figlio di“ oppure chi è stato al devoto servizio del prof ordinario per anni. Il meccanismo è semplice: l’università A non ha risorse per bandire un posto, ma un suo ricercatore, o un professore associato, fa in modo di essere dichiarato idoneo a un concorso nell’Università B: poi torna a “casa”, l’ateneo crea la nuova cattedra e il gioco è fatto.
I privilegi dei baroni
Analizzando i dati della Ragioneria di Stato si scopre che il carico quotidiano per chi insegna nelle università è in media di 3 ore e 39 minuti per cinque giorni alla settimana.
Un conteggio che tiene conto dell’insegnamento, delle sessioni d’esame, delle commissioni di laurea e del ricevimento degli studenti.
Nelle tabelle di retribuzioni per i professori ordinari nel 2008 si scopre che un docente appena assunto percepisce 4.373 euro lordi al mese. A fine carriera, dopo 28 anni, arrivano ad essere 8221,39 euro. Rapido calcolo matematico: 283,49 euro l’ora.
Roba da competere con i top manager delle multinazionali, senza però sobbarcarsi lo stress di un manager. Nelle università italiane, come nel resto della pubblica amministrazione, basta aspettare, e il tempo farà da solo: l’incedere delle lancette dell’orologio equivale sempre a un aumento di soldi, a prescindere dal lavoro prodotto. Non stupisce quindi il fatto di avere in Italia uno dei corpi docenti più vecchio del mondo: solo il 15 per cento dei dirigenti, l’otto per cento dei professori associati e l’uno per cento dei professori ordinari ha meno di quarant’anni.
E la colpa di tutto questo di chi è ????
Ma è evidente
Di quei politici di merda corrotti,incapaci e violentatori del popolo, che dicono sempre e solo: “stiamo lavorando,ne stiamo discutendo in commissione,non è giusto che accada questo,bisogna correggere qua e là,stiamo facendo… e così via!”
Ma che cosa hanno fatto fino ad oggi? NULLA
HANNO SOLO MANTENUTO QUESTO SISTEMA DI POTERE CORROTTO E CHE OBBLIGA I GIOVANI STUDENTI MERITEVOLI AD EMIGRARE.
PERCHE’ ?
Perchè sono proprio questi politici di merda che non fanno NULLA PER ELIMINARE I BARONI CORROTTI E MAFIOSI DALLE NOSTRE UNIVERSITA’.
Il 68 è passato invano,MA DOVREBBE RITORNARE PIU’ FORTE CHE MAI!
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