ISLAM
L’Islam è una religione monoteista manifestatasi per la prima volta nella penisola araba nella cittadina higiazena della Mecca nel VII secolo dell’era cristiana grazie a Maometto (in arabo Muḥammad), considerato dai musulmani l‘ultimo profeta inviato da Dio (in arabo Allāh) al mondo per ribadire definitivamente la Rivelazione, annunciata per la prima volta ad Adamo , il primo uomo.
Con circa 1,6 miliardi di fedeli, che corrisponde al 23% della popolazione mondiale, l’Islam è la seconda religione del mondo per consistenza numerica e vanta un tasso di crescita particolarmente significativo. Il 13% dei musulmani vive in Indonesia, che è anche il paese musulmano più popoloso, il 25% nell’Asia meridionale, il 20% in Vicino e Medio Oriente e il 15% nell’Africa subsahariana. Minoranze considerevoli si trovano anche in Europa, Cina, Russia e America.
I pilastri dell’Islam
I Pilastri dell’Islam sono i cinque doveri assolutamente cogenti per ogni musulmano osservante per potersi definire a ragione tale.
1) la shahada o testimonianza di fede
testimonio che non c’è divinità se non Dio (Allàh) e testimonio che Muhammad è il suo messaggero.
2) la salat, preghiera canonica
da effettuare 5 volte al giorno,in precisi momenti che sono scanditi dal richiamo dei muezzin che operano nelle moschee (oggi spesso sostituiti da registrazioni diffuse con altoparlanti).
I musulmani eseguono la preghiera rituale, o ṣalāt, cinque volte al giorno:
– Al “mattino” (al-fajr)
– A “mezzogiorno” (al-ẓuhr)
– A “metà pomeriggio” (al-ʿaṣr)
– Al tramonto (al-maghrib)
– Un’ora e mezza dopo il tramonto (al-ʿisha).
Per gli uomini è obbligatorio riunirsi in una moschea per pregare (chi è malato può restare a casa anche se il profeta Maometto, in caso di malattia, andava lo stesso alla moschea), ma per le donne no.
Un musulmano può pregare praticamente ovunque,anche sul lavoro o a scuola,è raccomandato però che si metta una stuoia pulita a terra dove pregare e di rivolgersi in direzione della Mecca durante la preghiera.
Prima di fare la preghiera bisogna essere in stato di purità, o wudūʾ. Wudūʾ è il nome del rito dell'”abluzione minore“, una pulizia rituale con acqua pura o, in caso d’impossibilità, sostituibile col tayammum (sfregarsi con terra pulita invece di acqua), in cui le parti lavate comprendono: le mani, la bocca, il naso, il volto, le braccia, la testa, le orecchie e i piedi fino alle caviglie.
Se il lavaggio viene eseguito con acqua, il musulmano è considerato in stato di ṭahāra (purità rituale), il che significa che si è ripulito dai peccati per il periodo che intercorre tra due preghiere. In altre parole, a meno che il musulmano non faccia qualcosa per rimuovere questa pulizia, non ci sarà bisogno di altri lavaggi prima della preghiera successiva. Quando invece viene fatto il tayammum e cioè viene usata la sabbia, la pulizia è temporanea e solo per quella preghiera, indipendentemente dal fatto che venga o meno commesso un atto impuro. Perciò, prima di eseguire un’altra preghiera, si dovrà procedere al lavaggio rituale del wudūʾ.
Tradizionalmente la salāt deve essere recitata in arabo (anche se la persona non lo parla né lo comprende, dato che comunque le preghiere vanno recitate a memoria): l’arabo è una lingua sacra ed è la lingua nella quale è stato rivelato il Sacro Corano. La salāt comprende la testimonianza di fede in Dio (Allah) e nella missione profetica (shahada) di Maometto, che implica una richiesta di perdono e invoca la benedizione celeste. Si recitano la prima sura (al-Fātiḥa) e una o più parti del Corano (imparate a memoria). L’intera sessione include varie posizioni (rakʿa): in piedi, inchinati, inginocchiati e prostrati. La sessione termina guardando a destra e a sinistra e dicendo “La pace sia su di te e dentro di te”, “al-salāmu ʿalaykum wa raḥmatu [A]llāh” (“la salvezza e la misericordia di Dio siano su di voi” oppure “al-salāmu ʿalaykum wa raḥmatu [A]llāhi wa barakātu-Hu” (“la salvezza, la misericordia e le benedizioni di Dio siano su di voi”) in arabo, al fedele che siede a fianco. Questo comprende anche i due angeli che i musulmani credono stiano alle spalle della persona (quello a destra registra le buone azioni, mentre quello a sinistra registra le cattive).
3) la zakat,versamento in denaro
obbligatorio per ogni musulmano che possa permetterselo,da devolvere nei confronti di poveri e bisognosi e che rende lecita la propria ricchezza.
Uno dei principi fondamentali dell’Islam è il credo che tutte le cose appartengano a Dio e che il benessere appartiene solo agli uomini meritevoli di fiducia. Ogni musulmano calcola la sua zakàt individualmente, e nella maggior parte dei casi questo implica il pagamento annuale del 2,5% del capitale in eccesso a quello necessario per i bisogni primari. Un musulmano può anche donare una somma addizionale come atto di carità volontaria (sadaqa), nella speranza di ottenere un’aggiuntiva ricompensa divina.
4) Sawm ramadan o digiuno
dal sorgere al tramonto del sole,per chi sia in grado di sostenerlo senza concrete conseguenze negative per la propria salute.
L’osservanza del Sawm (digiuno) include l’astinenza dal mangiare, dal bere, dal fumare e dai rapporti sessuali. Il digiuno è ordinato dal Corano, e viene osservato dai musulmani devoti puberi, durante tutto l’arco del dì, fino al calar del sole, per i 29 o 30 giorni del mese lunare di Ramadan. Ne sono esentati gli impuberi, i malati e le donne durante il loro ciclo mestruale (i giorni “saltati” devono comunque essere recuperati il prima possibile).
Durante il mese lunare di Ramadan i musulmani trascorrono più tempo in preghiera o ascoltando ogni giorno una parte (hizb, pl. ahzàb) del Corano letto da lettori specializzati in moschea o in luoghi allestiti allo scopo. Il Sawm mira a disciplinarsi, rafforzando le virtù della pazienza (sabr) e dell’autocontrollo, e del fare anche capire e provare su di sé le difficoltà che provano coloro che a volte non hanno di che mangiare. Questi atti vengono fatti sempre dedicando l’aspetto penitenziale del tutto a Dio.
5) Hajj, pellegrinaggio canonico alla Mecca
almeno una volta nella vita,per chi sia in grado di sostenerlo fisicamente ed economicamente.
Il pellegrino indossa una tenuta distintiva composta da due pezze di stoffa non cucite per lo più di colore bianco che non mostrino differenze di classe sociale e di cultura,perchè tutti sono uguali davanti a Dio.
6) In alcuni ambienti sciiti e sunniti si aggiunge un sesto pilastro: il jjhad, cioè l’impegno sacro armato .
Origine
L’origine dei cinque pilastri è da attribuirsi al cosiddetto Hadith di Gabriele attribuito al terzo califfo ʿUmar ibn al-Khaṭṭāb . Esso fra i più importanti ḥadīth dell’intero Islam, poiché nella sua narrazione racchiude gli aspetti considerati il cuore della religione islamica:
– I cinque pilastri dell’Islam
– I sei articoli di fede
– L’Ihsan
Maometto viene definito il “sigillo dei profeti” ed è un principio fondamentale per la fede islamica credere che con la sua morte sia terminato per sempre il ciclo profetico,tanto che viene accusato di massima empietà e di fatto posto al di fuori dell’Islam,chiunque lo dichiari riaperto.
Corano
Il Corano è l’unica e non più modificata affermazione della volontà divina,destinata a perdurare inalterata fino al Giorno del giudizio.
Nel Corano,la Sura CXII – al-lkhlas- o del culto sincero,fornisce la definizione che Dio dà di sè:
“Dio è uno,eterno. Non generò nè fu generato e nessuno Gli è pari”
L’Islam rigetta apertamente la Trinità e la visione divina di Gesù.
Dio, entità completamente trascendente, esiste senza avere luogo poiché è Egli stesso il luogo della Sua esistenza; insostanziale, incorporeo, non definibile e non raffigurabile. Tutto l’esistente, di cui è il Creatore ex-nihilo, non è altro che un Suo segno, una Sua manifestazione e un Suo riflesso attraverso cui Egli si rende conoscibile.
Data la sua natura trascendente e oscura all’uomo “non v’ha simile a Lui cosa alcuna”, l’Islam rifiuta l’idea che Dio assomigli in qualche modo alla sua creatura umana o che vi sia il benché minimo spazio per una concezione antropomorfica di Allāh.
Il Corano è diviso in 114 capitoli detti sure a loro volta divise in 6236 versetti.
Cristianesimo e islam
Il cristianesimo e l’islam sono due fedi diverse tra loro, che presentano sia elementi comuni (come ad esempio il monoteismo e la tradizione biblica), che elementi contrastanti (tra i quali la concezione della Trinità e il ruolo di Gesù).
Sia il cristianesimo che l‘islam si pongono nel solco delle religioni abramitiche assieme all’ebraismo. Abramo costituisce infatti un importante elemento di congiunzione tra le tre religioni: come figli di Abramo, ebrei, cristiani e musulmani sono spiritualmente uniti, pur nella presenza di numerose differenze.
Entrambe le religioni credono in un unico Dio,la cui Parola è veicolata da un testo scritto.
La Trinità risulta inaccettabile per l’islam,come anche per l’ebraismo.
Entrambe le religioni credono nel ritorno di Gesù alla fine dei tempi.
Per l’islam, Gesù è profeta (nabī), messaggero (rasūl), Messia (al-Masih) e musulmano, cioè sottomesso alla volontà di Dio – che nell’islam non si incarna né in Cristo, né in nessun altro profeta. Il Corano gli tributa numerosi titoli onorifici come abd-Allāh (servo di Dio), mubārak (benedetto), wadjih (meritorio di stima in questo mondo e nell’altro), ma respinge l’ipotesi che egli sia Dio.
Luoghi di culto
Luogo deputato (ma non indispensabile) alla Ṣalāt è la moschea (in arabo masjid, al plurale masājid). Non necessariamente delegata a fini liturgici, essa funge anche da luogo d’incontro, di studio e persino di riposo. Al suo interno si usano compiere le cinque preghiere giornaliere obbligatorie, la rottura del digiuno del ramaḍān, la raccolta e ridistribuzione dei fondi della zakāt.
Testi sacri
I testi fondamentali a cui fanno riferimento i musulmani sono, in ordine di importanza:
1) Il Corano
che è considerato espresso parola per parola da Dio (Allah)
2) La Sunna
letteralmente “consuetudine”,è costituita da una serie di detti fatti,silenzi o inazioni di Maometto.
3) Il Vangelo
4) i Salmi
5) la Torah
6) l’Avesta zoroastriano
Obblighi morali e sociali
– generico obbligo è anche quello di “ordinare il bene e vietare il male” ovunque essi si presentino,ricorrendo ad ogni mezzo lecito e necessario (con la mano,la parola,la penna o la spada),laddove il bene e il male sono determinati esplicitamente da Dio nel Corano,dovendosi intendere come Bene la sua volontà e Male il disobbedirgli.
– Islam significa sottomissione,abbandono o obbedienza a Dio.
– Dio – al contrario di quanto pensavano i mutaziliti – si crede non conceda il libero arbitrio all’uomo, essendo ogni atto (compreso quello umano) creato da Dio. Egli dà all’uomo tutt’al più il possesso (iktisāb) dell’atto compiuto, mentre il presumere di poter creare qualcosa o di penetrare l’insondabile Volontà divina sono peccati di massima superbia.
– ma anche nell’ottemperare alle precise e cogenti norme alimentari che, secondo lo schema vetero-testamentario, non si giustificano con motivazioni di carattere razionale, in grado cioè di essere percepite dall’intelligenza umana, ma che devono essere accettate come tutto il resto “senza chiedersi il come e il perché” (bi-lā kayfa).
Parte di queste norme è il divieto di consumare carne che non sia lecita (ḥalāl), ovvero macellata con l’invocazione ad Allāh e menzionando il suo Nome (Cor.,V:118, 119, 121) ovvero di animali morti per incidente o cause naturali (V:119): il divieto traeva origine da norme igieniche, ma uniformava anche altre regole diffuse in una società pre-islamica essenzialmente basata sulla pastorizia, che proibivano alcune carni alle donne della tribù, o che prevedevano la macellazione di alcuni capi di bestiame senza che fosse pronunciato il Nome di Allah (VI, 138).
L’Aldilà
Alla creatura umana Allāh riserva, a seconda della Sua insondabile volontà e del comportamento tenuto dalla Sua creatura – un premio eterno o un castigo.
Il luogo in cui potranno essere godute le delizie paradisiache è il “Giardino” , mentre il luogo in cui saranno scontate le azioni malvagie è il Fuoco .
L’Islam propone un’interpretazione positiva della vita che, sotto la guida di Allah, va sempre accettata e valorizzata fino al suo limite naturale, cioè fino alla morte.
Il corpo viene seppellito direttamente sul fondo del sepolcro e il luogo tombale viene contrassegnato elevandone il livello di terriccio al di sopra del suolo circostante. Una pietra nuda può essere usata per indicare l’ubicazione della tomba.
Il movimento hanbalita non approva che vi siano scritte su lapidi che ricordino il morto, per un’ansia di uguaglianza degli uomini e delle donne dopo la morte, ma non sono mancate in passato lapidi coi nomi dei defunti e con brani coranici che ne attestino la fede islamica. Sopra il luogo tombale non ammettono strutture di cornice in muratura o in altro materiale.
La visita alle tombe è raccomandata ai vivi affinchè ricordino l’inevitabilità della morte e il giorno del giudizio di Allah.
Per quanto riguarda l’aspetto concettuale della morte nell’Islam, si ritiene che vita, malattie, sofferenze e morte siano inserite nel piano provvidenziale di Allah, che il credente è chiamato ad accettare integralmente, senza farsi domande e anche se non ne comprende il perché: il mistero dell’esistenza deve rimanere oscuro ma non è cieco, e la vita è dono divino di cui ringraziare Allah, nonostante le prove e le sofferenze che tanti possono patire. Non si tratta di rassegnazione nel senso passivo del termine, ma di accettazione attiva di tutto ciò che Allah ha progettato per il bene del suo fedele. La tradizione religiosa islamica vieta infatti il suicidio e l‘eutanasia e propone un’etica positiva della vita, accettata fino al suo limite naturale, cioè fino alla morte.
Matrimoni misti
La struttura familiare islamica permette ai musulmani di sposare donne di fede ebraica o cristiana (Sura V:5) che siano «miḥsanāt», tradotto con «fortificate» e interpretato con «oneste, caste e virtuose». La moglie non musulmana ha diritto di esercitare il suo culto e di consumare i cibi che la sua religione permette. I figli devono essere educati secondo la religione del padre, a pena di ripudio. La moglie non musulmana può ereditare la sua parte attingendo a quel terzo che la legge islamica consente di legare a chi non sia parte legale di una successione.
Assenza di clero
Le correnti principali dell’Islam non ammettono né riconoscono clero e tanto meno gerarchie,dal momento che si crede non possa esistere alcun intermediario fra Dio e le sue creature.
Da non confondere col clero è la categoria degli imam: musulmani che per le loro conoscenze liturgiche sono incaricati dalla maggioranza dei fedeli di condurre nelle moschee la loro preghiera obbligatoria.
Il fatto di rapportarsi direttamente con il sacro e di non ammettere intermediari tra uomo e Dio non rende necessaria la figura del sacerdote (cui quindi non sono, almeno nel Sunnismo, minimamente assimilabili gli ʿulamāʾ o i mufti). Diverso il caso dello Sciismo, dove gli Ayatollah fungono in qualche misura da intermediazione tra i devoti e l'”Imam nascosto”, la cui parusia è attesa alla fine dei tempi, ma che agisce ineffabilmente proprio attraverso i dotti.
Neppure gli ʿulamāʾ, che si limitano a interpretare il Corano, possono essere avvicinati a una forma di clero, anche se, nell’assolvere alla loro funzione, di fatto tendono a riaffermare il ruolo privilegiato che deve svolgere la religione islamica nella società.
A un ben delimitato ambito giuridico vanno invece ricondotti i mufti, che sono autorizzati a esprimere pareri astratti nelle diverse fattispecie giuridiche, indicando se una data norma sia o meno coerente con l’impianto giuridico islamico.
Similmente devono essere considerati i qāḍī che, storicamente, erano di nomina governativa e chiamati a giudicare in base alle norme della sharīʿa all’interno di particolari tribunali (definiti sciaraitici) che, un tempo, caratterizzavano le società islamiche ma che sono stati progressivamente soppiantati nella maggioranza dei Paesi islamici da tribunali statali che agiscono in base a una normativa che fa riferimento a codici, per lo più d’ispirazione occidentale, anche se ispirati alla tradizione normativa sciaraitica.
Forma di ricerca interiore, il misticismo dell’Islam, è incarnato dai sufi.
Scuole giuridiche e teologiche
Se ognuno è sacerdote di sé stesso e responsabile dei suoi errori, il discrimine fra quanto è considerato consono all’Islam e quanto gli è contrario potrà scaturire solo dall’approfondito dibattito fra esperti “dottori” (ʿulamāʾ) che abbiano compiuto i necessari studi all’interno di strutture d’insegnamento religioso, la cui affidabilità sia riconosciuta senza riserve.
Esiste in materia un pluralismo di scuole giuridiche (madhhab) e teologiche, con numerose diverse interpretazioni di una stessa fattispecie giuridica (salvo, ovviamente, l’impossibilità di discutere gli assetti dogmatici dell’Islam, che non sono contestabili, per non incorrere automaticamente nella condanna di kufra – infedeltà massima – che fa conseguire la qualifica di “eretico” – kāfir, pl. kāfirūn).
Tutte le cosiddette “scienze religiose” (ʿulūm dīniyya) tendono alla formazione di un consenso maggioritario (ijmāʿ) circa il modo d‘interpretare il disposto coranico e sciaraitico. Tale consenso potrà comunque mutare nel tempo, in caso si esprima in tal senso una nuova maggioranza. Si parla di una vera e propria “polverizzazione” dei modi di giudicare della umma, divisa in numerose scuole teologiche e giuridiche, alle quali potrebbe aggiungere anche l’enorme differenziato panorama costituito dalle confraternite mistiche, tanto che qualcuno ritiene che, più che parlare di Islam, si dovrebbe parlare di “pluralità di Islam” (Islams in inglese).
Gruppi religiosi
I musulmani vengono differenziati in:
1) Sunniti
sono fra l’87 e il 90% del numero complessivo dei musulmani. Sono maggioritari in quasi tutti i paesi islamici.
2) Sciiti
sono circa il 10-13%,sono dominanti in Iran,Azerbaigian,Iraq,Libano, Bahrein.
Si dividono a loro volta in:
– gruppo imamita
– gruppo ismailita ( India)
– gruppo zaydita (Yemen)
3) Kharigiti
con i sottogruppi:
– sufriti
– Azraqiti
– Najadat
– Nukkariti
– Idaditi (Oman)
4) Alawiti (Siria)
5) Drusi (Libano, Siria, Israele)
6) Baha
7)Aleviti (Turchia)
8) Ahl-e Haqq (Iraq e Iran)
9) Ahmadiyya (India)
10) Lahore (Pakistan)
11) Sikh (India
12) Yazidi
13) Nation of Islam (U.S.A.)
Differenze fra Islam e Islamismo
abbastanza sfumata, in italiano una diversità sostanziale invece esiste, perché con la parola Islam s’intende quell’insieme di atti di fede, di pratiche rituali e di norme comportamentali che è praticato da sunniti e sciiti che, insieme, rappresentano quasi il 99% dei fedeli musulmani, mentre il termine Islamismo indica di fatto una concezione dell’uomo e del mondo che si ispira ai valori dell’Islam ma che si esprime a livello più propriamente politico.
Islam politico
– Dal 632 al 1924 l’Islam politico si è sviluppato nel califfato.
– Dal 1969 i paesi musulmani fanno riferimento per la difesa dei valori dell’Islam all’associazione Organizzazione della Conferenza Islamica.
– Dal 1945 quelli arabofoni fanno anche riferimento, ma essenzialmente politico, alla Lega Araba.
Concezione del mondo
Questa dottrina, che non compare nel Corano e negli hadith, è stata elaborata da Abū Ḥanīfa al-Nuʿmān e da altri pensatori musulmani nell’arco di cinque secoli. Un periodo di espansione territoriale per l’Islam, che per questo aveva necessità di dotarsi di una visione geo-politica del mondo che, secondo questa concezione, sarebbe diviso in tre parti:
1) Il “Territorio (lett. “Casa”) dell’Islam”, o “Dār al-Islām” (o Dārunā, “Il nostro territorio”), dove vivono i musulmani sotto la protezione della Legge islamica e i popoli sottomessi (dhimmī). Gli uomini appartenenti a fedi diverse da quella islamica, fino all’età contemporanea, furono infatti assoggettati al pagamento di un tributo personale, la jizya, che garantiva loro la protezione da aggressione esterne, venendo esentati dal servizio militare, dal pagamento della zakat – tassa riservata ai soli musulmani – venendo garantiti nel godimento di una sostanziosa, anche se limitata, indipendenza amministrativa.
2) Il “Territorio della Tregua“, “Dār al-ʿahd” o “Dār al-Hudna”, territorio non islamico in cui però l’Islam è praticabile liberamente. Non può essere attaccato e, al contrario, deve essere difeso dai musulmani che hanno stabilito un patto con le autorità del paese; i musulmani devono anche rispettarne gli usi e i costumi. Se però la controparte rompe i patti, può trasformarsi in Dar al-Harb.
3) Il Territorio della Guerra, o “Dār al-ḥarb” (talora chiamato “Dār al-kufr”, “Casa dell’empietà”) riguarda invece i territori confinanti con quelli islamici (ma anche all’interno di quelli) che non hanno un accordo di pace o di non-aggressione con i paesi musulmani circostanti. Secondo alcuni giuristi musulmani, un territorio a maggioranza musulmana conquistato da forze non-islamiche diventa Dār al-ḥarb. Secondo molti storici, dopo la scomparsa dell’ultimo grande califfato, quello Ottomano, e la frammentazione degli Stati islamici seguita al Colonialismo, questo concetto ha perso molto del suo significato.
Demografia
Uno studio demografico del 2009, condotto in 232 tra stati e territori, ha riferito che il 23% della popolazione mondiale, pari all’incirca a 1,57 miliardi di persone, è di fede islamica. Di questi si stima che oltre il 75-90% siano sunniti, mentre gli sciiti sarebbero il 10-20%, con una piccola restante minoranza appartenente ad altre sette. Circa 57 paesi sono a maggioranza musulmana, gli arabi rappresentano circa il 20% di tutti i musulmani del mondo.
Allah
Allah (in arabo: ﷲ, Allāh) è la parola araba con cui Dio definisce se stesso nel Corano. Di conseguenza, visto il valore veicolare della lingua araba per la cultura islamica, è questo il nome prevalentemente usato per indicare la divinità Una e Unica nei paesi di lingua araba e in tutto il mondo musulmano.
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È difficile per chi voglia tentare di capire che cosa il Corano veramente indichi al popolo musulmano come linea di vita e come missione in terra, trovare nel sacro testo di Maometto elementi di moderazione o di tolleranza verso il cosiddetto popolo degli infedeli. Il versetto 29 della Sura 9 del Corano è illuminante: «Combattete coloro che non credono in Allah e quelli, fra la gente della Scrittura, che non scelgono la religione della verità». Il popolo della Scrittura sono gli ebrei e i cristiani. Combatterli significa non confrontarsi con loro, ma semplicemente eliminarli, se non si sono prima convertiti. Di conseguenza, chiunque voglia commettere una violenza è perfettamente giustificato dal Corano a farlo.
Molti passaggi nel Corano esortano i musulmani a uccidere gli infedeli, termine che in origine designava gli Arabi che non si sottomettevano all’Islam ma che dopo la morte di Maometto e la violenta espansione territoriale islamica, passò ad indicare tutti i non musulmani. Così, per esempio, nella sura 2 (190-193) si legge: «Combattete per la causa di Allah coloro che vi combattono, uccideteli ovunque li incontriate, scacciateli. Combatteteli finchè il culto sia reso solo ad Allah». Sono questi i fondamenti della Guerra Santa. Per vincerla, il Corano indica senza equivoci la violenza. Del resto, lo stesso Maometto fu nella sua vita un convinto operatore i violenza, assassinò molti dei suoi oppositori, consentiva che donne e bambini fossero venduti come schiavi, che centinaia di uomini fossero catturati, sgozzati o decapitati, come abbiamo visto fare oggi ai terroristi dell’Isis.
Questo perché ai musulmani viene promesso a chi combatte e muore per la Jihad, il perdono di tutti i peccati commessi e ricompensato, come predica la Sura 3, «nel più alto dei Paradisi» con una vita sensuale e lussuriosa, un Giardino delle Delizie, dove i beati vivono in oasi lussureggianti, in ricchi palazzi, consumano cibi squisiti e bevande inebrianti, comprese quelle proibite sulla terra.
Va ricordato che i primi anni di Maometto furono contraddistinti da una predicazione pacifica nella città della Mecca. Durante questo periodo egli si mostrò uomo che cercava di elevare la condotta morale del suo popolo attraverso una serie di leggi che faceva credere gli fossero state dettate da Dio. Subito dopo la svolta aggressiva che è sotto i nostri occhi, fino alla giustificazione delle nefandezze e degli attentati sanguinari, oggi rivolti agli occidentali, popolo degli infedeli e dei miscredenti. Un popolo che va sterminato, perché ha valori e costumi incompatibili con l’Islam, a sua volta incompatibile con la libertà, la democrazia e i diritti umani, quindi con lo stesso concetto di civiltà. L’Islam è fisiologicamente violento, conflittuale per missione religiosa, secondo i dettami del Corano.
Ma esiste un Islam moderato, che bilanci quello aggressivo e seminatore di morte? Per Oriana Fallaci no. Chi si dice moderato ma bastona la propria moglie, uccide la figlia se si innamora di un cristiano, non si può definire tale. Eppure questo accade di frequente anche nella maggioranza dei musulmani che non hanno aderito all’Isis. Chi vuole sostituire la democrazia con la teocrazia, madre di tutti i totalitarismi, non può dirsi moderato. Oramai stanno divenendo di dominio pubblico, oltre che virali, alcuni versetti del Corano che inneggerebbero alla violenza e alla guerra. Ricordiamo che il Corano è unico e vale sia per i musulmani cosiddetti «moderati» che per gli estremisti.
Sta di fatto che coniugando fede e ragione, diversi circoscritti versi del Corano sono violenti e inapplicabili in una moderna società civile. Uno dei versetti più in voga recita senza equivoci: «Quando incontrate gli infedeli, uccideteli con grande spargimento di sangue e stringete forte le catene dei prigionieri». (Sura 47:4). La verità è che tutto quanto sta accadendo oggi e che noi abbiamo fatto finta di non vedere, è scritto molto chiaramente nel Corano, così come Hitler nel Mein Kampf aveva anzitempo messo nero sul bianco le follie che avrebbe poi commesso. Tutto il male che i figli di Allah militanti nell’Isis compiono contro di noi, è di fatto scritto in molte Sure. Secondo le quali gli esseri umani hanno insito nella propria natura, insieme a elementi divini, celesti, anche una naturale inclinazione verso il male. Per un certo Islam, il male è giustificabile se usato come strumento per il trionfo di Allah.
Gli ostaggi dell’Islam
Qual è il principale dei molti effetti funesti prodotti da quell’espressione micidiale dell’attacco islamista alla nostra civiltà che fu la tragedia dell’11 settembre? È indubitabilmente una manifesta riduzione, contrazione, regressione della democrazia in tutti i paesi dell’Occidente. Se infatti la democrazia, in Europa e negli Stati Uniti, è oggi piuttosto malconcia, ciò non dipende affatto, come pensano e dicono i maestrini del pensiero progressista, dalle crisi economiche che il capitalismo non cessa di generare, e a causa delle quali gli orfanelli del comunismo non cessano a loro volta di sperare che esso finalmente si autodistrugga, bensì appunto dall’imperversare del terrore che lo stragismo islamista sta suscitando in tutto il pianeta.
Lo stato di salute della democrazia, in tutti i paesi di quella parte del mondo che per la sua opposizione e refrattarietà al comunismo fu un tempo detto “libero”, è anzi così grave che a rigore la si potrebbe dire già morta. La democrazia occidentale potrebbe dirsi infatti già defunta per la semplice ragione che la paura destata dal terrorismo islamista ci ha già indotti a sospendere quello che è forse il suo principio fondamentale: quella libertà di pensiero e di espressione che ormai da molto tempo credevamo fosse una conquista irreversibile. In Europa, la Chiesa e lo Stato si sono combattuti per secoli. Ognuno dei due poteri aspirava a fagocitare l’altro ma per fortuna questo non è mai avvenuto. Soprattutto non si sono mai compattati: non hanno, cioè, mai raggiunto quella fusione perfetta che è forse il contrassegno di ogni totalitarismo, sia teocratico che partitico. E proprio questo ha permesso che gradualmente potesse formarsi quello spirito europeo che si riconosce proprio nel principio della libertà di pensiero e di espressione.
A provare che l’Europa ha già deciso di rimangiarsi il principio della libertà di pensiero e di espressione basterebbe da solo l’episodio delle vignette satiriche su Maometto pubblicate nel 2005 dal quotidiano danese Jyllands-Posten ma poi subito ritirate e rinnegate sotto le plateali minacce del terrorismo islamista. Si pensi inoltre al deplorevole epilogo della storia dell’uccisione di Theo van Gogh, il giovane regista olandese assassinato da un terrorista islamista nel 2004 per avere pubblicato un cortometraggio, Submission, che parlava delle donne maltrattate nelle famiglie musulmane in Europa. Ricorderò un altro esempio di pavidità. Negli ultimi anni, l’unico tentativo – poi in parte ritirato, autosmentio e corretto – di contestare alcuni fondamenti della Weltanschauung arabo-islamista in senso più generale è il famoso discorso di papa Ratzinger a Ratisbona, in cui Benedetto XVI si permise di fare alcune osservazioni su un testo di un imperatore bizantino del 1300, testo in cui si affermava che nel Corano c’è del nuovo e c’è del buono, ma che il buono non è nuovo, giacché si trova già nella Bibbia, e il nuovo non è buono, perché in sostanza di autentiche istigazioni alla persecuzione e all’assassinio degli “infedeli“. Per questo intervento il papa fu violentemente attaccato, insultato e minacciato da tutte le massime autorità politiche e spirituali del mondo islamico, eppure nessuna cancelleria europea credé opportuno difenderlo.
Un effetto non meno deprimente di questa folle voglia dell’Europa di disfarsi dei propri princìpi è anche il caso dello scrittore francese Robert Redeker, il professore di filosofia che il 19 settembre del 2006 fu licenziato dal liceo Pierre-Paul Riquet di Saint Orens de Gameville, in provincia di Tolosa, perché in un articolo sul “Figaro” aveva criticato per l’appunto le reazioni islamiche al discorso del papa a Regensburg. Simili episodi ripropongono infatti fragorosamente il problema capitale: della resa progressiva dell’Occidente alle continue intimidazioni islamiste in nome di una falsa tolleranza e di un nichilismo in salsa buonista che potrebbero pian piano, una capitolazione dopo l’altra, finire per provocare una completa sottomissione, più o meno cosciente, del mondo libero all’ordine coranico. Forse il libro che espone meglio la storia dei diversi atti istituzionali coi quali l’Europa sta collaborando da anni alla sua metamorfosi in una orribile zuppa “eurabiana” è quello che Bat Ye’or, la storica egiziana di origine inglese, ha intitolato appunto “Eurabia. Come l’Europa è diventata anticristiana, antioccidentale, antiamericana, antisemita“. In questo importantissimo lavoro (che fra l’altro è la fonte principale degli scritti di Oriana Fallaci contro la deriva filoslamica europea) c’è un elenco sterminato di fatti che dimostrano come il contrarsi della democrazia in Europa sia dovuto a quel processo che va sotto il nome di “dialogo euro-arabico“.
Una delle conseguenze più ridicole e sinistre di questo dialogo è la seguente: in Europa, fra gli europei e arabi che hanno il diritto di rivedere i libri con cui si insegna la storia nelle scuole e lo sviluppo economico e sociale del mondo arabo, o i rapporti fra il Corano e la vocazione originariamente terrorista della religione musulmana, o la vera storia della nascita dello stato di Israele, o il problema del suo diritto all’esistenza, eccetera eccetera, infischiandosi, come dovrebbe dei risultati che questa commissione ha ottenuto e otterrà. Tutto lascia prevedere che ben presto in nessuna scuola europea saranno ammessi testi di storia che, tanto per fare pochi semplicissimi esempi, trattino argomenti come la vita e le imprese di Maometto, o la storia delle crociate, o i vari fattori che nel XIV secolo determinarono l’arresto dello tante organizzazioni nate dal dialogo euroarabico, è stata istituita una commissione di storici maomettani europei. Non è difficile immaginare che L’Europa si rivela dunque non soltanto un’alleata, ma anche una complice dell’orgoglio musulmano.
Io non sono un cattolico osservante. Forse non sono neppure un cristiano. Anzi non credo in nessuna religione positiva. Sono però rispettoso delle radici cristiane del Paese in cui sono nato e penso che le radici cristiane, insieme con le radici pagane e le radici ebraiche, siano straordinariamente importanti per il dna del nostro continente, dove invece non ci sono radici islamiche.
In Europa la radice maomettana non esiste per la semplice ragione che Maometto e l’islam nascono in opposizione sia al mondo giudaico-cristiano sia al mondo pagano.
Basta a provarlo il fatto che il primo atto per così dire teologico di Maometto, quello che lo obbligò a fuggire dalla Medina, fu un atto insieme antipagano e anticristiano: con la cancellazione della triade femminile dal Pantheon degli arabi preislamici – che al pari dei pagani e dei cristiani avevano una grande madre nella figura della Vergine Maria – in sostanza volle cancellare il tratto femminile dallo spirito umano. Non bisogna inoltre sorvolare allegramente, come purtroppo fa la stessa Chiesa, sul fatto che il fondamento della religione cristiana è una dottrina del martirio assolutamente incompatibile con la religione islamica. In aramaico prima e in greco antico poi, “martire” significa “testimonio“. La teoria del martirio è simboleggiata da quel logo strepitoso che è la Croce. Quel simbolo dice che Cristo si fece crocifiggere per testimoniare la propria fede. Non andò in giro a testimoniarla ammazzando il prossimo. A costo della propria vita, non della vita degli altri. Lasciando da parte il confronto col cristianesimo, resta comunque che da un punto di vista antropologico lo scandalo maggiore del nuovo millennio – iniziato tuttavia molto prima della fine del millennio scorso con la nascita dell’organizzazione terroristica Settembre Nero (1970) – è l’emersione di un movimento il cui programma comprende il reclutamento, la formazione, l’educazione, il modellamento, il plagio dei bambini al fine della loro trasformazione in piccoli terroristi votati allo stragismo suicidario.
Conclusione immaginaria ma non troppo. Chissà che prima o poi, dal ventre di questa Europa ansiosa di rinunciare alla propria identità, non spunti una scuola di pensiero decisa a incoraggiare i magistrati di Allah a trascinare in giudizio, uno dopo l’altro, tutti gli illustri infedeli che hanno osato, dal VII secolo in poi, parlar male del Profeta.
Si potrebbe incominciare col signor Voltaire. Che in una sua sciocca tragedia definì Maometto “un mostro incomprensibile di audacia e di impostura”. E nel suo turpe e fatuo Dizionario filosofico, descrisse la fede islamica come una superstizione sanguinaria. Arrivando a insinuare che essa istigherebbe i suoi fedeli a scannare gli infedeli assicurando loro che scannandoli meriteranno il cielo.
Dovrebbe quindi seguire il signor Schopenhauer. Che si dovrà rimangiare tutta la sua opera. Compreso, ovviamente, quel libro infame – Il mondo come volontà e rappresentazione – che è considerato il suo capolavoro. Dove la religione musulmana viene definita “la forma più squallida di teismo“. E del Corano si dice che non contiene “nemmeno un pensiero dotato di valore“.
Una denuncia speciale dovrebbe poi riguardare il professor Jacob Burckhardt. Che in un indegno libello – Riflessioni sullo studio della storia – tracciò questo ritrattino del Profeta: “Maometto è fanatico all’estremo, ogni libertà in materia di religione lo riempie di sacro furore, e questa è la sua forza principale. Il suo fanatismo è quello di un semplificatore radicale, e come tale del tutto genuino. Era un fanatismo della specie più tenace, la furia dottrinaria, e la sua vittoria fu una delle più grandi vittorie del dottrinarismo e della banalità”.
Alla sbarra dovrebb’essere portato anche il signor Canetti, che in “Masse e potere” insinuò che tutti i comandi di Allah sono sempre comandi di morte. L’elenco potrebbe protrarsi per un pezzo.
Il più interessante di questi processi comunque riguarderà il signor Dante. Che, come tutti sanno, osò sbattere all’inferno anche Maometto. Sistemandolo, com’è noto, nel girone degli scismatici. Dove il Profeta appare come un fantoccio spaccato a metà. Anzi, più esattamente, “rotto dal mento infin dove si trulla” (vale a dire dalla bazza al deretano). Offrendo così lo spettacolo descritto in questa oscena terzina: “Tra le gambe pendevan le minugia, | la corata pareva, e il tristo sacco | che merda fa di quel che si trangugia”. Qualche ingenuo a questo punto eccepirà che non si processano i morti. Errore, grave errore. Allah esige che i suoi beffatori vengano denunciati, processati, condannati e tormentati per tutta l’eternità.
Islam e turchia
– Velo e minigonne
Alle sette di sera, su Istiklâl Caddesi, i top e le minigonne scompaiono. Da venerdì notte, sulla via dello struscio di Istanbul, e poi su fino a piazza Taksim, cuore passionale della città, vige una legge non scritta che le donne hanno imparato in fretta a rispettare. Dopo una certa ora, meglio girare con braccia e gambe coperte, magari pure con un velo a mascherare collo e capelli.
Su Twitter – il mezzo di comunicazione e d’informazione preferito dei giovani – iniziano a girare alcune storie raccapriccianti. Come quello della studentessa che racconta il grido lanciatole contro da un’auto, sabato sera: “Uccideremo anche le donne come voi“.
La “situazione”, come le strade, sta diventando pericolosa per le donne. Lo confermano gli sguardi sconcertati delle passanti “laiche” e le parole di alcune donne coraggiose. Come l’avvocatessa Ceren Akkawa, volontaria part time presso Mor çati, la prima e attivissima organizzazione in Turchia a combattere la violenza contro le donne. “Passo dopo passo stanno restringendo i nostri diritti e dopo i fatti di venerdì scorso la situazione non potrà che peggiorare – racconta -. Sulla carta la Turchia ha una legislazione molto avanzata nel campo della parità di genere. Ma nelle strade, nelle stazioni di polizia, nelle aule di tribunale, la prassi è di tutt’altro genere. C’è una distanza abissale tra la teoria e la realtà. La Turchia resta una società patriarcale. Da almeno quattro anni il governo spinge verso un conservatorismo sempre più marcato: la legge islamica si avvicina ogni giorno di più“.
Il Sultano Erdogan non ha mai fatto mistero delle sue opinioni sul ruolo della donna, dal numero dei figli che dovrebbe avere al tipo di impiego (“non è uguale a noi uomini, non può fare lo stesso lavoro“). Uno dei primi decreti è stato il via libera al turban in scuole e uffici pubblici (il velo islamico turco, che copre il capo ma lascia scoperto il volto, era vietato dal 1924 per volere di Ataturk). Le islamiche, o “turche nere“, sono uscite poco alla volta: non solo nelle strade, ma anche nelle aule universitarie e in quelle di tribunale.
È solo l’inizio, secondo le “turche bianche”. Pur essendo il primo Paese firmatario della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (2011), la Turchia è al 77 posto su 100 nell’indice sull’uguaglianza di genere dell’Undp (Programma per lo sviluppo dell’Onu) e le turche hanno un rischio 10 volte maggiore di essere pestate dal proprio compagno rispetto alle cittadine dell’Unione europea (dall’inizio dell’anno sono state uccise 135 donne). L’ultimo raduno di piazza importante, alla vigilia dell’8 marzo, nel distretto asiatico di Kadikoy, è stato disperso dalla polizia con proiettili di gomma e lacrimogeni.
E il peggio deve ancora venire. Tra le proposte avanzate dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul divorzio, c’è la depenalizzazione dell’abuso sessuale sulle minorenni se viene seguito da cinque anni di matrimonio “sotto il controllo del governo”. Ufficialmente un modo per condonare le “fuitine“, ancora molto diffuse nelle zone rurali. “È disgustoso, stanno incoraggiando i matrimoni forzati delle bambine“, commenta Ayse Arman, editorialista del quotidiano Hurriyet. Le fa eco la presidente della Federazione delle associazioni femminili turche, Canan Güllü: “Vogliono infilare le vittime di violenza nello stesso letto dello stupratore e poi costringerle a vivere con lui per cinque anni. Questa mentalità non è degna della Turchia contemporanea”. Di fatto, nella prassi è già così: secondo fonti giudiziarie, sono 3000 i casi di stupratori che hanno evitato il carcere sposando le proprie vittime.
Di recente, poi, la Corte costituzionale ha abolito l’articolo 103 che punisce gli abusi sessuali sui minori, sostenendo che la punizione per i reati sui bambini fra i 12 e i 15 anni non può essere uguale a quella che coinvolge gli under 12. I legislatori hanno tempo sei mesi per riformulare la legge, dopodiché si creerà un vuoto legislativo. E la pedofilia sarà, di fatto, legale in Turchia. I giornali pro-Erdogan in questi giorni continuano a pubblicare in prima pagina foto di bambine sorridenti sulle spalle dei padri e donne scamiciate che sventolano bandiere in piazza. Ma sono eccezioni, in una folla popolata di veli e ombre nere.
La parte liberale del Paese sembra sparita, anche dai quartieri più europei della metropoli del Bosforo. Ovunque caroselli di macchine con i fedelissimi del partito del presidente che urlano “Allah u Akhbar“. In auto quattro uomini barbuti apostrofano due ragazze che passeggiano sorridenti sulla discesa di Barbaros Bulvari, il boulevard del quartiere Besiktas, a Istanbul. “Questi sono gli ultimi bei giorni per voi – attacca il tipo a fianco del guidatore – tra poco metterete il velo come tutte!”. Scoppia un alterco, le donne si ribellano, i quattro rispondono, finiscono per andarsene. Ma le ragazze, sconvolte, si perdono nelle lacrime.
Benvenuti nella Turchia sopravvissuta al golpe. Dove giorno e notte bande di esaltati percorrono le strade di Istanbul a clacson spianati come per una vittoria calcistica. Dove famiglie intere coi bambini in braccio indossano sul capo una fascia rossa con il nome del presidente conservatore islamico Recep Tayyip Erdogan. E dove donne velate con il niqab nero che le copre fino ai piedi fanno spuntare la mano per agitare la bandiera rossa con la mezzaluna al grido “Allah u Akhbar“, Dio è grande.
La faccenda del vessillo nazionale è il dettaglio più sorprendente. Da sempre i turchi, più che essere nazionalisti, sono molto patriottici e adorano la propria bandiera. Guai a chi la profana, a rischio della vita. Ma il pezzo di stoffa rossa, da quasi cento anni simbolico appannaggio dei laici che si richiamano al pensiero kemalista di Ataturk, il fondatore della Turchia moderna, gli è ora stato letteralmente strappato dalle mani, per passare in quelle dei lealisti islamici. E adesso lo brandiscono felici, come per un tesoro conquistato.
Mai, in questo paese, si era visto uno stormire di bandiere così esibito come dopo la conclusione del fallito golpe. E nelle piazze, nelle strade, lungo i viali, compaiono solo loro: i seguaci di Erdogan, i fedelissimi del presidente sfuggito alla destituzione. Galata, quartiere europeo per eccellenza, colonia genovese di Costantinopoli, pare un deserto: negozi serrati, ristoranti chiusi, attività ferme.
Passa una motoretta, ma sono due barbuti che alzano le dita a V. La zona oggi si chiama Beyoglu: qui c’è il famoso Liceo Galatasaray, l’Accademia di Francia, il Consolato di Svezia, bar e locali dove i turisti stranieri ascoltavano musica inebriati dal raqi, il prelibato distillato d’anice. Però questa sera, come tutte le altre ormai, dopo il golpe, nulla di tutto questo: solo silenzio, paura, e nemmeno un goccio di liquore.
Ma dove sono tutti gli altri? I laici, i democratici, i liberali. Dov’è la Turchia scesa in Piazza Taksim e a Gezi Park. Sono tutti a casa, la testa fra le gambe. “Abbiamo paura a uscire – spiega Meltem, bella manager quarantenne, al lavoro la mattina in tailleur blu elettrico – il presidente ha ordinato ai suoi di presidiare le strade e le piazze, e allora è meglio non rischiare di cadere in provocazioni. Tutti sono molto emotivi, adesso. Potrebbe scatenarsi una guerra civile, facile che accada, ed è opportuno evitare ogni attrito. Possiamo solo sperare che la situazione cambi. Come? È una bella domanda. Non lo sappiamo davvero. Ma con le elezioni non è stato mai possibile. I media sono quasi tutti asserviti. Polizia e magistratura hanno paura. Nemmeno l’esercito è riuscito a fare il golpe. Sì, ci sentiamo proprio soli“.
Così i nuovi padroni imperversano e si sono impadroniti di Piazza Taksim, cuore della città. E, naturalmente, del Parco Gezi della famosa rivolta. Adesso innalzano colonne di fumo come per uno spettacolo musicale, urlano slogan al microfono, cantano fino alle 3 del mattino. Autobus e metro, per tutti, sono gratis, pur di presidiare le vie. Quando poi al mattino appare il leader, è un tripudio di bandierine in festa. Lui annuncia: “Se Dio vuole, come prima cosa costruiremo caserme a Taksim. Che lo vogliano o no”. In arrivo altre misure: la chiusura del Centro culturale di Ataturk, la costruzione dell’ennesima moschea. E Piazza Taksim e Gezi Park, simboli storici della laicità, possono languire nell’islamizzazione accelerata.
I numeri la evidenziano. Il Partito della Giustizia e dello Sviluppo, al potere dal 2002, ha conquistato alle ultime elezioni del 2015 più del 49 per cento dei voti. La metà del paese. Ma è soprattutto una rivoluzione sociale, quella in atto nella repubblica di Mustafa Kemal: oggi alle leve del comando sono gli anatolici, i cosiddetti “turchi neri” delle provincie più interne e lontane; mentre i “turchi bianchi” della costa, circassi, occhi azzurri, biondi come lo era Ataturk, stanno confinati ai margini dopo aver comandato per tutto il secolo scorso.
E questo è un momento di svolta. Perché se l’altra metà del paese non sarà capace di reagire, velocemente, e le strade continueranno a essere presidiate da baffuti e donne velate con in pugno la bandiera, la Turchia cosmopolita e tollerante di un tempo rimarrà un ricordo. Di un paese che, a guardarlo trasformarsi, si avvicina a tappe spedite all’Iran e agli Emirati arabi uniti.
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