APPARATO CARDIOCIRCOLATORIO – 3°
BRADICARDIA SINUSALE
La bradicardia sinusale corrisponde all’abbassamento della frequenza cardiaca al di sotto di 60 battiti al minuto.
Può essere
– fisiologica: nei soggetti giovani, negli anziani, negli sportivi, in caso di iperattività vagale.
– patologica: nell’ipotiroidismo, ipotermia, nausea, vomito, ipertensione endocranica, tifo, malattie del nodo del seno e ipersensibilità carotidea.
– farmacologica: per trattamento con betabloccanti, antiaritmici, diuretici eccetera.
Il limite critico della bradicardia dipende dall’allenamento del cuore: gli sportivi sopportano senza difficoltà bradicardie notturne anche sotto i 40/min. Per persone non allenate già un ritmo <40-50/min può essere non emodinamicamente efficace. In caso di patologie cardiache ed extracardiache livelli simili possono portare a difetti nella perfusione cerebrale.
La bradicardia sinusale patologica non mostra la normale tachicardizzazione legata allo sforzo.
TACHICARDIA SINUSALE
La tachicardia sinusale corrisponde all’innalzamento della frequenza cardiaca al di sopra di 100 battiti al minuto.
Può essere
– fisiologica: nei neonati, nei bambini, in caso di sforzi fisico e psichico, in caso di reazioni emotive, nelle situazione di ipertono simpatico.
– patologica: febbre, ipertiroidismo, anemia, ipossiemia, ipotensione, emorragie, shock, insufficienza cardiaca.
– farmacologica: eccesso dietetico (alcol, tabacco, caffè), derivati adrenergici eccetera.
La diastole, l’unico momento in cui il cuore può essere perfuso e quindi ossigenato, durante la tachicardia si accorcia, diminuendo così l’apporto di ossigeno al tessuto contrattile del cuore. Esiste una frequenza critica, quindi, che si calcola come 220 meno l’età.
ARITMIA SINUSALE
L’aritmia sinusale è un difetto del ritmo del cuore dovuto a problemi di automatismo o di conduzione.
Può essere
– fisiologica, legata al respiro: aumento della frequenza cardiaca in ispirazione (riflesso di Bainbridge per aumentato ritorno venoso) e rallentamento in espirazione (effetto vagale).
È più facilmente individuabile nei giovani.
– patologica: forma rara. Non è legata alla respirazione ma a malattie del nodo senoatriale.
ARITMIA DA PACEMAKER MIGRANTE
In cardiologia, il termine segnapassi migrante indica una aritmia atriale che si verifica quando l’attività di segnapasso non avviene più a livello del nodo senoatriale ma in altri foci dotati di automatismo. Questo spostamento dell’attività di segnapassi è identificabile sul tracciato dell’ECG poiché comporta modificazioni morfologiche dell’onda P. Si ha pertanto un’alterazione del ritmo, con cicli irregolari ma frequenza cardiaca nel range fisiologico.
EXTRASISTOLE
L’extrasistole è un battito cardiaco prematuro, ossia una contrazione del muscolo cardiaco che avviene prima del previsto, alterando la successione regolare dei battiti nel ritmo sinusale. L’impulso nasce quasi sempre in sedi diverse dal nodo seno-atriale, che è il luogo d’origine fisiologica dell’attività elettrica del cuore.
Le extrasistoli possono essere isolate, cioè comparire in maniera sporadica, o avere una cadenza regolare, ad esempio comparire dopo ogni battito sinusale (extrasistoli bigemine) o ogni due battiti sinusali (extrasistoli trigemine). Possono presentarsi anche sotto forma di “scariche” di due (coppia), tre (tripletta) o più extrasistoli (extrasistoli “a salve”).
In genere, a una extrasistole fa seguito una pausa che può essere compensatoria (se la somma del periodo dell’extrasistole più la pausa è uguale a due cicli sinusali) o non compensatoria (se la somma è minore). Le extrasistoli atriali hanno di solito una pausa non compensatoria, quelle ventricolari hanno una pausa compensatoria.
Se non vi è pausa, se cioè l’extrasistole si inserisce semplicemente fra due battiti sinusali successivi, viene detta extrasistole interpolata.
Classificazione
In base alla sede di origine, le extrasistoli vengono comunemente distinte in extrasistoli atriali, giunzionali e ventricolari.
Extrasistoli atriali
All’ECG questi impulsi anomali appaiono come onde P premature, con morfologia differente rispetto alle onde P sinusali. Gli impulsi possono arrivare ai ventricoli attraverso le normali vie di conduzione (in tal caso alla P anomala segue un regolare complesso QRS), oppure possono bloccarsi nel nodo AV che si trova ancora in periodo refrattario (extrasistole atriale non condotta). Oppure possono giungere ai ventricoli in un momento in cui il nodo AV è uscito dal periodo refrattario, ma una delle due branche si trova ancora in fase refrattaria; in tal caso lo stimolo raggiungerà i ventricoli attraverso l’altra branca, per cui si verifica un complesso ventricolare con morfologia tipo blocco di branca. Questo tipo di conduzione viene definito “aberranza”, per cui si parla di extrasistole atriale condotta con aberranza.
Extrasistoli giunzionali
L’impulso origina nel fascio di His e va ai ventricoli dando luogo a un complesso QRS di morfologia regolare. Può verificarsi la retroattivazione degli atri, o lo stimolo può estinguersi, “scontrandosi” con quello sinusale nel nodo seno-atriale.
Extrasistoli ventricolari
L’impulso origina nei ventricoli, a valle della biforcazione del fascio di His. All’ECG si rilevano complessi QRS larghi, non preceduti dall’onda P e pertanto chiaramente distinguibili da quelli sinusali. Anche in questo caso può verificarsi o non verificarsi la retroattivazione degli atri.
Cause
Le extrasistoli compaiono comunemente in soggetti sani, in qualsiasi età, compresa l’infanzia. Talvolta sono espressione di stress, ansia, stanchezza, sforzi fisici, deprivazione di sonno, tabagismo, abuso di caffeina. In alcuni casi possono comparire dopo un pasto abbondante, legate a distensione del fondo gastrico, o legate alla presenza di un’ernia iatale.
Più di rado possono essere espressione di una malattia cardiaca, di un disturbo elettrolitico (ad es. carenza di potassio) o di una malattia della tiroide.
== Effetti dell’extrasistole ==che sintomi può dare? I soggetti nei quali si verifica questa aritmia descrivono manifestazioni quali “tuffo al cuore”, sensazione di un battito mancato, nodo in gola, palpitazione, ansia. In molti casi l’extrasistole, specie se isolata, non viene avvertita soggettivamente. Talvolta il paziente si accorge del fenomeno controllandosi da solo il polso o la pressione arteriosa, ma può capitare che le extrasistoli, del tutto asintomatiche, vengano registrate occasionalmente ad un elettrocardiogramma (ECG) eseguito per altri motivi.
Diagnosi
L’ECG permette di rilevare un complesso QRS prematuro. In base alle sue caratteristiche, si può distinguere l’origine dell’extrasistole.
– Se il QRS prematuro è preceduto da un’onda P, l’extrasistole è sicuramente atriale. Se non è preceduto da onda P, si può determinare l’origine dell’extrasistole dalla larghezza del QRS.
– Se il complesso QRS è stretto, l’extrasistole è atriale. Se è largo, ma ugualmente preceduto da un’onda P anomala, l’extrasistole è atriale ma verosimilmente ha trovato una delle branche del fascio di His ancora in periodo refrattario ed è stata condotta ai ventricoli con aberranza (“blocco di branca funzionale”).
– Se vi sono più complessi QRS prematuri, e tutti presentano la stessa morfologia e lo stesso ritardo, si parla di extrasistoli monomorfe; al contrario, se i complessi QRS hanno morfologia differente, si parla di extrasistoli polimorfe.
Se si riscontrano extrasistoli isolate, monomorfe, in un paziente con un’obiettività cardiovascolare normale, le extrasistoli non hanno alcun significato e il paziente non ha bisogno di ulteriori indagini.
Raramente le extrasistoli possono dare l’innesco ad aritmie sostenute: un’extrasistole atriale può dare inizio a una tachicardia parossistica sopraventricolare, a un flutter, a una fibrillazione atriale o a una tachicardia giunzionale; un’extrasistole ventricolare può scatenare una tachicardia da rientro AV o una tachicardia ventricolare.
In rari casi, cioè quando sono presenti in numero estremamente elevato (molte migliaia al giorno), le extrasistoli potrebbero determinare lo sviluppo di una cardiomiopatia dilatativa. In tali casi, la riduzione o l’eliminazione delle extrasistole (ad esempio tramite ablazione radioelettrica) determina solitamente la progressiva regressione della cardiomiopatia.
BLOCCO SENOATRIALE
Per blocco senoatriale si intende un disturbo della conduzione del segnale elettrico cardiaco dalle cellule pacemaker del nodo del seno al tessuto atriale circostante.
Si tratta di un’aritmia difficilmente diagnosticabile all’ECG di superficie, dal momento che l’attivazione del nodo del seno sviluppa potenziali elettrici troppo bassi per essere registrati dagli elettrodi esterni che vengono comunemente utilizzati; spesso si può soltanto intuirne la presenza tramite segni indiretti.
Classificazione
Il blocco senoatriale si può classificare in tre categorie differenti, con criteri simili a quelli utilizzati per il blocco atrioventricolare:
Blocco senoatriale di primo grado
Consiste in un semplice rallentamento della conduzione del segnale a livello della giunzione senoatriale. Tutti gli impulsi generati nel nodo del seno vengono trasmessi all’atrio, sebbene con ritardo.
Blocco senoatriale di secondo grado
Alcuni degli impulsi vengono completamente bloccati nel contesto della giunzione senoatriale. A seconda della modalità con la quale si instaura il blocco, se ne distinguono due varietà:
– Blocco senoatriale di secondo grado tipo I (di Wenckebach). L’impulso nato nel nodo del seno viene condotto attraverso la giunzione senoatriale con un ritardo crescente, finché uno di questi non viene completamente bloccato. A questo punto la giunzione ha il tempo di recuperare completamente la capacità di conduzione; l’impulso successivo viene quindi condotto col minimo ritardo consentito dallo stato della giunzione senoatriale, ed andrà accumulando nuovo ritardo fino al blocco successivo.
– Blocco senoatriale di secondo grado tipo II (di Mobitz). Gli impulsi vengono condotti normalmente (o con un ritardo che resta costante), fin quando uno di questi non viene improvvisamente e completamente bloccato.
Blocco senoatriale di terzo grado
Nessun impulso viene condotto dal nodo senoatriale al tessuto atriale di conduzione. In questo caso si instaura una situazione analoga a quella dell’arresto sinusale; generalmente, nel caso in cui il fenomeno abbia una durata sufficiente, il controllo del battito cardiaco passa ad altre zone del cuore, per cui si sviluppa un ritmo di scappamento.
Eziologia
Il difetto di conduzione fra il nodo senoatriale ed il resto dell’atrio è dovuto in gran parte dei casi alla degenerazione del tessuto della giunzione senoatriale, secondaria ad un danno di qualunque tipo o semplicemente legata all’invecchiamento cellulare. Molti farmaci, inoltre, sono in grado di ridurre l’efficacia della conduzione in un tessuto che può essere peraltro normale. A volte, soprattutto nei soggetti giovani, il blocco in uscita dal nodo del seno può essere dovuto ad un ipertono vagale; si tratta, in questo caso, di reperti occasionali e privi di significato clinico.
Tra le cause meno frequenti ci sono modificazioni dello stato ormonale, specie l’ipotiroidismo, alterazioni strutturali del cuore, alcune malattie infettive come la febbre Dengue.
Sintomatologia
La sintomatologia associata al blocco senoatriale è quella comunemente provocata da tutte le bradiaritmie ed è legata alla riduzione dell’apporto di sangue a diversi organi ed apparati. Il blocco senoatriale di primo grado non provoca modificazioni della frequenza di contrazione ventricolare, per cui non è in grado di evocare sintomatologia. I blocchi di secondo e terzo grado, invece, provocano il blocco di alcuni o di tutti gli impulsi cardiaci, con conseguente interruzione della funzione di pompa del cuore.
Frequentemente, l’assenza di una contrazione cardiaca valida per diversi secondi provoca un ipoafflusso cerebrale, che si traduce in vertigini, sensazione di “testa vuota”, calo del visus, lipotimie ed eventualmente episodi sincopali.
Diagnosi ECG
Al contrario di quello che accade per il blocco atrioventricolare, in cui è possibile registrare all’ECG un evento “prima” del blocco (onda P) ed uno “dopo” il blocco (complesso QRS), la diagnosi elettrocardiografica del blocco senoatriale è complicata dal fatto che il tessuto a monte del blocco, composto dalle sole cellule del nodo senoatriale vero e proprio, non è un grado di generare un segnale elettrico di intensità tale da essere registrabile dall’esterno.
La diagnosi del blocco senoatriale all’ECG di superficie si basa quindi su segni indiretti. È invece possibile studiare al meglio il fenomeno tramite la registrazione dei potenziali elettrici dall’interno delle cavità cardiache mediante lo studio elettrofisiologico, sebbene questa procedura sia invasiva e non venga utilizzata nella pratica clinica per porre diagnosi di blocco senoatriale.
Blocco senoatriale di primo grado
Dal momento che non è possibile riconoscere all’ECG di superficie l’attivazione del nodo del seno, un eventuale ritardo della conduzione nella giunzione senoatriale non lascia segni sul tracciato, che risulta completamente normale.
Ne può essere ipotizzata la presenza durante lo studio elettrofisiologico mediante diverse tecniche, ad esempio osservando il tempo di recupero dell’atrio dopo una stimolazione elettrica prematura (una “extrasistole artificiale”) che, condotta attraverso il nodo del seno, ne resetta il meccanismo di scarica. Nei cuori in cui il battito spontaneo tarda a ricomparire, si può attribuire il tempo di latenza in eccesso ad un rallentamento della conduzione a livello della giunzione senoatriale.
Blocco senoatriale di secondo grado
Pur non essendo possibile misurare direttamente il tempo di conduzione tra nodo del seno ed atrio per gli stessi motivi descritti precedentemente, il blocco senoatriale di secondo grado può dare segni di sé all’ECG di superficie. Nel blocco senoatriale di secondo grado tipo I si osserva un caratteristico comportamento dell’attivazione atriale. Le onde P tendono ad essere sempre più ravvicinate, fin quando non si osserva una pausa più lunga, sebbene minore del doppio dell’intervallo più breve della serie (caratteristica questa tipica del blocco di II grado). Ciò dipende dal fatto che in ogni battito il tempo di conduzione tra nodo del seno ed atrio si allunga, ma ogni allungamento è di entità minore del precedente; se il tempo di conduzione del primo battito misurasse ad esempio 10 ms, il secondo ne misurerà 20 (aumento di 10ms), il successivo 28 (aumento ulteriore di 8 ms), poi ancora 34 (aumento di 6) e così via. La distanza tra due onde P si accorcerà nella stessa misura in cui si accorcia l’entità dell’allungamento del tempo di conduzione nella giunzione senoatriale; nell’esempio precedente, ogni ciclo P-P misurerà 2 ms in meno del precedente.
Una diagnosi di questo tipo è complessa. Per poter apprezzare queste piccole variazioni del ciclo P-P è necessario inoltre che il nodo del seno generi impulsi a cadenza estremamente precisa; anche una piccola variazione della frequenza di scarica (come spesso avviene nell’aritmia sinusale), sovrapposta a questo tipo di aritmia, ne impedisce il riconoscimento.
La diagnosi di blocco senoatriale di tipo II è relativamente più semplice. Dal momento che ogni impulso generato dal nodo viene condotto in un tempo costante, anche le onde P avranno un intervallo costante. Nel momento un cui un impulso viene bloccato, l’atrio non si attiva e non viene registrata l’onda P (e quindi l’intero battito che ne consegue). Il nodo del seno continuerà però a generare impulsi allo stesso ritmo, indipendentemente dal difetto di conduzione a valle; il battito successivo che verrà condotto sarà registrato quindi dopo un tempo pari a circa il doppio del ciclo normale (“manca” un battito).
Questa variante è probabilmente l’unica che possa essere diagnosticata con una certa precisione all’ECG di superficie; la diagnosi differenziale si pone con una fase di arresto sinusale (l’impulso non viene generato affatto) la cui durata sia casualmente pari al doppio di un intervallo P-P normale.
Blocco senoatriale di terzo grado
Dal momento che nessun impulso riesce ad essere condotto, questa condizione risulta indistinguibile dall’arresto sinusale, in cui il segnale elettrico non viene generato affatto.
BLOCCO ATRIOVENTRICOLARE
Il blocco atrioventricolare (talvolta abbreviato BAV) è un difetto nel sistema di conduzione del cuore, che si verifica nella porzione tra atrio e ventricolo. In condizioni fisiologiche il nodo senoatriale determina il ritmo cardiaco generando segnali elettrici che si propagano fino al ventricolo. Nel caso in cui si verifichi un blocco atrioventricolare l’impulso elettrico non raggiunge i ventricoli o è alterato. Anche nel caso in cui si verifichi un’interruzione completa della conduzione dal nodo senoatriale, i ventricoli continuano a contrarsi, sebbene ad un ritmo minore, grazie al pacemaker naturale.
Classificazione
Si riconoscono, in base ai tracciati ECG, diversi livelli di blocco:
I Grado
Il blocco atrioventricolare di I grado è caratterizzato da un rallentamento eccessivo della conduzione dell’impulso riconoscibile all’Elettrocardiogramma come un allungamento del tratto PR superiore a 200 millisecondi.
II Grado
Si distinguono diversi tipi di blocco atrioventricolare di II grado, tutti caratterizzati dalla mancata conduzione ai ventricoli di alcuni battiti atriali (onde P). In particolare si possono avere i seguenti tipi di blocco atrioventricolare:
– Mobitz 1 (Periodismo di Luciani-Wenckebach), caratterizzato da un allungamento costante del tratto PR fino a che una P non è seguita dal complesso QRS, quindi un impulso non è condotto tra atri e ventricoli. Segue quindi un tratto PR corto;
– Mobitz 2, tratto PR perlopiù costante, ma nel quale improvvisamente una P non è seguita da QRS;
– A conduzione costante 2:1, 3:1, 3:2 dove i numeri indicano il rapporto di conduzione tra atrio e ventricolo;
– Di grado avanzato, in cui più di una P non è seguita da QRS.
III Grado
Il blocco atrioventricolare di III grado o dissociazione atrioventricolare, è la dissociazione completa fra atri e ventricoli (ognuno si contrae con frequenza propria); in assenza di un ritmo di scappamento il paziente decede per asistolia. È il tipo più frequente quando la causa del blocco atrioventricolare è ischemica.
Cause
L’eziologia dei blocchi atrioventricolari è varia. Le cause, infatti, possono essere congenite (es. cardiopatie congenite) o ereditarie, autonomiche, metaboliche, legate all’assunzione di farmaci, infettive, infiammatorie, tumorali, infiltrative, degenerative o ancora il blocco atrioventricolare può essere secondario ad un evento acuto.
Ereditarie
Tra le possibili cause ereditarie di blocco atrioventricolare sono comprese:
– la sindrome di Lev-Lenègre;
– la distrofia miotonica;
– la distrofia muscolare di Emery-Dreifuss;
– la distrofia facio-scapolo-omerale;
– la sindrome di Kearns–Sayre;
Farmaci
Il blocco atrioventricolaresi può verificare come effetto collaterale secondario al meccanismo d’azione in alcune classi di antipertensivi tra cui beta bloccanti, antagonisti del canale del calcio e digitalici. Inoltre, a causa della loro azione sulla conduzione degli impulsi anche gli antiaritmici di prima e terza classe ed il litio possono essere causa di blocchi atrioventricolari.
Trattamento
Qualora il difetto di conduzione non sia temporaneo la terapia d’elezione è costituita dall’impianto di un pacemaker.
TACHICARDIA PAROSSISTICA
La tachicardia parossistica è una forma patologica di tachicardia, in quanto fenomeno anormale nell’aumento della frequenza cardiaca. Viene chiamata anche sindrome di Bouveret-Hoffmann.
Sintomatologia
È una tachicardia che insorge e cessa bruscamente, con 140-220 battiti al minuto, con una durata che va dal minuto fino a qualche ora.
La crisi inizia con una sensazione definita come un “tuffo al cuore”, quindi si avverte il ritmo concitato. Se la tachicardia è molto elevata e si manifesta in un cuore non sano, la brevità del momento diastolico non permette il riempimento del cuore, diminuendo la quantità di sangue lanciato ad ogni sistole.
La velocità della frequenza può sopperire a questa scarsità, ma non sempre è così: il sangue che arriva ai tessuti è quindi scarso. Il cuore risponde a questa esigenza con il dolore e con un senso di costrizione toracica avvertibile nell’emitorace sinistro. Compaiono sintomi come vertigine, stordimento, annebbiamento della vista, legati alla scarsa ossigenazione del cervello. Il resto dell’organismo reagisce con sudorazione fredda, difficoltà respiratoria e nausea fino ad arrivare allo svenimento.
Tipologia
In base al punto in cui si origina la contrazione del cuore, può essere distinta in sopraventricolare (TPSV) o ventricolare (TPV).
FLUTTER ATRIALE
Il flutter atriale (flutter in inglese significa battito rapido, movimento rapido) è una aritmia sopraventricolare con contrazione dell’atrio del cuore molto rapida e ben organizzata, dove la frequenza atriale può arrivare a 250-350 impulsi al minuto. Generalmente si instaura un blocco nella conduzione atrioventricolare, per cui la frequenza percepita è normalmente di circa 150 battiti al minuto.
A causa del rallentamento della conduzione dell’impulso attraverso il nodo atrioventricolare, non tutte le attività elettriche del flutter si trasmettono dagli atri ai ventricoli. Generalmente il rapporto tra l’attività elettrica degli atri e quella dei ventricoli è 2:1, talvolta 3:1 o 3:2, molto raramente 1:1 (di solito quando la frequenza del flutter è stata portata, attraverso la somministrazione di farmaci, sotto i 200 battiti al minuto).
Il meccanismo elettrofisiologico alla base del flutter è un rientro dello stimolo elettrico all’interno dell’atrio (rientro intra-atriale) che può interessare tutto l’atrio o una parte di esso.
Sintomatologia
Generalmente la persona avverte irregolarità nel ritmo (nel caso di blocco variabile 2:1 e 3:1) oppure frequenza accelerata. È da notarsi che spesso molti pazienti non avvertono alcuna alterazione del ritmo. Possono riscontrarsi disturbi legati ad ischemia cardiaca (tipo angina pectoris, infarto miocardico acuto..) e/o sintomi di uno scompenso cardiaco.
Eziologia
Il Flutter atriale parossistico può svilupparsi in un cuore sano o in cuori con anomalie degli atri (per es. dilatazione) o alterazioni del sistema di conduzione
Diagnosi
Nell’ECG le onde che si visualizzano sono a dente di sega e si nota la continua attività elettrica (più onde P per ogni complesso QRST), ancora più chiara in II, III o V derivazione. Normalmente la frequenza ventricolare si stabilizza (nei casi blocco A-V fisso) tra i 145-150 (se blocco A-V 2:1) oppure 95-100 (se blocco A-V 3:1), oppure circa 75 (se blocco A-V 4:1)
Terapia
Come intervento è specifica la cardioversione sincronica con corrente diretta a bassa energia, sempre minori di 50 joule, come farmaci da somministrare utili i betabloccanti, e calcioantagonisti per rallentare l’alta frequenza.
Complicanze
Il flutter atriale, seppur meno della fibrillazione atriale è considerato un ritmo emboligeno, ovvero, si possono formare dei trombi nell’atrio sinistro e successivamente portare ad una tromboembolia. Le altre complicanze:
– blocco A-V 1:1 (non è in questo caso un vero blocco ma una conduzione di tutti gli impulsi atriali al ventricolo),
– passaggio a fibrillazione atriale
– passaggio a fibrillazione ventricolare
FIBRILLAZIONE ATRIALE
La fibrillazione atriale è un’alterazione del ritmo cardiaco (aritmia) ad origine dagli atri del cuore. È una complessa patologia elettrica degli atri, eterogenea dal punto di vista fisiopatologico e clinico, spesso multifattoriale, che presenta costantemente due caratteristiche: l’attivazione elettrica rapida e apparentemente caotica del tessuto atriale e l’aumentato rischio tromboembolico.
La fibrillazione atriale è il risultato di un gran numero di disordini cardiaci e extracardiaci: da malattie strutturali, come le valvulopatie e le cardiomiopatie, all’ipertensione arteriosa, a malattie genetiche ereditarie, ai distiroidismi, fino ai casi in cui non è possibile determinare la causa, detti idiopatici.
L’approccio clinico corrente, oltre ad affrontare la patologia cardiaca o extracardiaca sottostante, mira a trattare i sintomi e a minimizzare l’incidenza di embolie e di scompenso cardiaco.
Le raccomandazioni – ampiamente condivise in letteratura – sulla scelta terapeutica, in senso strettamente aritmologico, si basano sull’alternativa tra.
– il controllo del ritmo (cioè il recupero e il mantenimento del ritmo sinusale con farmaci antiaritmici o l’ablazione transcatetere);
– il controllo della frequenza cardiaca con farmaci che regolano la conduzione degli stimoli atriali ai ventricoli associati alla terapia antitrombotica.
Numerosi studi randomizzati non hanno dimostrato beneficio sulla mortalità nei pazienti trattati con i farmaci antiaritmici finora in uso per il controllo del ritmo rispetto a quelli trattati solo per il controllo della frequenza.
A tutt’oggi non è noto se la strategia di controllo del ritmo con l’ablazione transcatetere migliora la mortalità rispetto al semplice controllo della frequenza cardiaca. È in corso uno studio randomizzato che mette a confronto l’ablazione con la terapia farmacologica.
La scelta sulla condotta terapeutica viene quindi personalizzata basandosi su vari fattori:
– l’età,
– la tolleranza emodinamica,
– l‘entità dei sintomi,
– l‘epoca di insorgenza della fibrillazione,
– la storia di recidive precedenti e la loro durata l’elevata probabilità di recidiva,
– la reversibilità delle condizioni causali,
– la presenza e severità di cardiopatie strutturali sottostanti,
– le dimensioni degli atri e la presenza di rimodellamento strutturale,
– la tolleranza dei farmaci antiaritmici e anticoagulanti,
– le aspettative del paziente.
Epidemiologia
La fibrillazione atriale è la forma più diffusa di aritmia, dopo l’extrasistolia. L’1-2% della popolazione è affetta da fibrillazione atriale, probabilmente la prevalenza è però più vicina al 2%, tenendo conto del gran numero di casi non diagnosticati. Gli uomini presentano una prevalenza superiore al sesso femminile. L’incidenza (il numero di nuovi casi per anno) è aumentata del 13% negli ultimi 20 anni. Il rischio di presentare fibrillazione atriale nel resto della vita, negli individui di 40 anni di età, è di circa il 25%.
Condizioni associate e fattori di rischio
Tutte le malattie cardiache e molte patologie extracardiovascolari possono essere associate, come fattore causale o come fattore di rischio o come conseguenza, alla fibrillazione atriale. In particolare molte di queste condizioni possono essere concomitanti: tale polimorbilità ha un effetto additivo nel determinismo dell’aritmia.
– Età: l’invecchiamento aumenta l’incidenza della fibrillazione atriale. La prevalenza dell’aritmia nella popolazione generale aumenta dallo 0,5% a 40-50 anni al 5-15% a 80 anni di età, sfiorando il 18% nella popolazione di età uguale o superiore a 85 anni. Il rischio di presentare fibrillazione atriale nel resto della vita è di circa il 25% negli individui di 40 anni di età;
– Ipertensione arteriosa;
– Scompenso cardiaco: è presente nel 30% dei pazienti con fibrillazione atriale. L’aritmia può essere causa di scompenso sia favorendo cronicamente una tachicardo-miopatia o causando un’insufficienza cardiaca acuta a causa dell’elevata frequenza ventricolare. Lo scompenso cardiaco può a sua volta provocare la fibrillazione atriale attraverso l’aumento del volume e della pressione atriale o per disfunzione valvolare secondaria o stimolando meccanismi neuroendocrini di adattamento;
– Valvulopatie: la fibrillazione atriale è presente nel 30% circa delle valvulopatie, più precocemente nella storia naturale della stenosi e dell’insufficienza mitralica, più tardivamente nelle valvulopatie aortiche;
– Cardiomiopatie idiopatiche: dilatativa, ipertrofica, restrittiva;
– Disfunzione del nodo del seno: in associazione alla fibrillazione atriale configura la sindrome bradi-tachi;
– Cardiopatie congenite: soprattutto i difetti del setto interatriale, il ventricolo singolo, la trasposizione delle grandi arterie dopo intervento di Mustard, dopo chirurgia secondo Fontan;
– Cardiopatia ischemica: è presente nel 20% dei pazienti con fibrillazione atriale;
– Difunzioni della tiroide: possono causare fibrillazione atriale (anche come unico fattore causale) in ordine l’ipertiroidismo, l’ipotiroidismo e le disfunzioni subcliniche della ghiandola tiroide;
– Obesità: è presente nel 25% dei pazienti con fibrillazione atriale;
– Diabete mellito: è presente nel 20% dei pazienti con fibrillazione atriale;
– Broncopneumopatia cronica ostruttiva: è presente nel 10.15% dei pazienti con fibrillazione atriale;
– Embolia polmonare e ipertensione polmonare primitiva e secondaria;
– Malattia renale cronica: è presente nel 10-15% dei pazienti con fibrillazione atriale;
– sindrome delle apnee notturne ostruttive;
– Consumo di alcool;
– Chirurgia cardio-toracica;
– Fumo di tabacco;
– Esercizio fisico vigoroso o prolungato (atleti);
– Reperto ecocardiografico di dilatazione dell’atrio sinistro, diminuzione della funzione sistolica del ventricolo sinistro (valutata come Frazione di Eiezione), ispessimento delle pareti del ventricolo sinistro, aumento degli indici di pressione telediastolica del ventricolo sinistro;
– Aumento di alcuni indici bioumorali di flogosi (Proteina C-reattiva) e di insufficienza ventricolare sinistra (pro-BNP).
Classificazione
La classificazione e la nomenclatura delle varie forme di fibrillazione atriale si basa sul criterio della durata o degli interventi terapeutici o dell’associazione ad altre patologie. Nomenclatura dei diversi tipi di fibrillazione atriale:
– Fibrillazione atriale di nuova insorgenza: fibrillazione documentata per la prima volta, indipendentemente dalla presenza di sintomi o da eventuali precedenti episodi non documentati.
– Fibrillazione atriale parossistica: fibrillazione che termina spontaneamente o con cardioversione farmacologica o elettrica entro 48 ore o 7 giorni dall’insorgenza (a seconda delle linee guida: il limite di 48 ore è stato posto perché è considerato il massimo periodo di tempo che consente la cardioversione immediata con basso rischio embolico; il limite di 7 giorni è stato posto perché è il periodo in cui più frequentemente avviene la remissone spontanea dell’aritmia).
– Fibrillazione atriale persistente: fibrillazione atriale continua di durata superiore a 48 ore o a 7 giorni,(a secondo delle linee guida) o che è interrotta con cardioversione farmacologica o elettrica dopo questo limite.
– Fibrillazione atriale persistente di lunga durata: fibrillazione atriale continua di durata superiore a 12 mesi. Questa durata è importante perché correlato alla probabilità di successo della cardioversione o dell’ablazione trans catetere.
– Fibrillazione atriale permanente: il termine è usato quando paziente e medico decidono congiuntamente di accettare la fibrillazione atriale e desistere da ulteriori tentativi di ripristinare e mantenere il ritmo sinusale. Non si riferisce quindi alle caratteristiche fisiopatologiche dell’aritmia poiché la decisione dipende dalla malattia cardiaca sottostante, dai sintomi, dall’efficacia delle terapie e dalla preferenza del paziente e del medico.
– Fibrillazione atriale non valvolare: fibrillazione atriale in assenza di stenosi mitralica reumatica, di protesi valvolare meccanica o biologica o di riparazione della valvola mitralica (la distinzione da quella associata a malattia valvolare è importante per la scelta della terapia anticoagulante).
– Fibrillazione atriale silente (o asintomatica): fibrillazione atriale che non si associa a sintomi, indipendentemente da altre caratteristiche. Può essere diagnosticata a seguito di una complicanza correlata alla FA, come l’ictus ischemico o la tachicardiomiopatia, o incidentalmente con l’esecuzione di un elettrocardiogramma.
– Fibrillazione atriale secondaria: fibrillazione atriale in cui è possibile individuare la causa dell’aritmia o una condizione favorente, cardiaca o extracardiaca.
– Fibrillazione atriale primitiva o isolata (Lone atrial fibrillation): fibrillazione atriale non associata a patologia cardiovascolare, compresa l’ipertensione arteriosa, o altro fattore causale noto. La diagnosi è quindi di esclusione e richiede l’esecuzione delle indagini cliniche e strumentali indicate per il caso. In generale riguarda individui giovani, o con età< 60 anni, apparentemente sani. L’assenza di reperti patologici negli esami non invasivi non esclude completamente patologie pregresse o in atto. In biopsie multiple del miocardio atriale di questi pazienti sono frequenti alterazioni istologiche di tipo prevalentemente infiammatorio o fibrotico.
Elettrocardiogramma e diagnosi
È caratterizzata all’elettrocardiogramma di superficie da assenza di onde P distinte (cioè assenza delle normali onde di attivazione atriale a fisiologica origine dal nodo del seno); sono presenti invece delle cosiddette onde f, di morfologia e voltaggio variabili, con un ciclo (o intervallo tra due attivazioni) variabile, ma comunque inferiore a 200 ms (corrispondente alla frequenza di 300 battiti/m) – per lo più la frequenza è di 400-600 battiti/m – che conferiscono un aspetto frastagliato all’isoelettrica. Gli intervalli RR (cioè gli intervalli tra due battiti corrispondenti all’attivazione elettrica dei ventricoli) sono completamente irregolari senza seguire uno schema ripetitivo. Per questo la fibrillazione atriale è stata chiamata aritmia totale. La durata minima per definire su un tracciato elettrocardiografico la fibrillazione atriale è di 30 sec.
Data l’irregolarità dell’aritmia la frequenza cardiaca viene misurata come “frequenza ventricolare media”, cioè contando tutti i battiti (complessi QRS) presenti in un minuto e non estrapolando a partire da intervalli più brevi.
L’irregolarità dei battiti ventricolari determina l’irregolarità delle pulsazioni palpabili ai polsi arteriosi periferici (comunemente l’arteria radiale). Il sospetto diagnostico viene dalla presenza di un polso irregolare, ma la diagnosi deve essere elettrocardiografica. Anche il susseguirsi irregolare di extrasistoli può infatti mimare al polso una fibrillazione atriale.
La diagnosi differenziale con altre aritmie dovrebbe tenere in considerazione: la tachicardia sopraventricolare e il flutter atriale (che hanno cicli atriali in genere superiori a 200 ms) e il susseguirsi di ectopie (extrasistole), A volte intervalli RR molto brevi possono coprire nell’elettrocardiogramma il ritmo atriale: può essere necessario allora rallentare la conduzione atrio-ventricolare con manovre vagali o farmaci (adenosina, calcioantagonisti non idropiridinici) in modo da far emergere sul tracciato le onde f. A volte la somministrazione di farmaci antiaritmici può prolungare i cicli atriali (durata maggiore di 200 ms).
Fisiopatologia
La fibrillazione atriale è determinata dall’interazione di tre fattori:
– il trigger, lo stimolo elettrico che la inizia;
– il substrato, il tessuto miocardico atriale vulnerabile che ne permette l’inizio e il mantenimento;
– il contesto metabolico (soprattutto la concentrazione degli elettroliti) e neuroendocrino (simpatico e parasimpatico).
Nonostante i progressi della ricerca sperimentale e clinica, la fisiopatologia della fibrillazione atriale non è ancora stata completamente chiarita. La scoperta recente più importante è stata l’identificazione dei trigger (battiti ectopici) ad origine dalle vene polmonari da parte di Michel Haïssaguerre. Si ritiene che, passando dalla forma parossistica a quella persistente, l’importanza del trigger cede il posto al substrato (modificazioni del miocardio) nella patogenesi dell’aritmia.Sono state identificati, sia in modelli animali sia in setting clinici nell’uomo, tre meccanismi responsabili della fibrillazione atriale:
– meccanismo focale dovuto alla rapida scarica di un unico o multipli foci stabili e conduzione fibrillatoria nell’atrio;
– fronti d’onda multipli rientranti;
– rotori relativamente stabili che producono altri rotori transitori e conduzione fibrillatoria negli atri.
Questi diversi meccanismi possono essere correlati a substrati differenti e anche a particolari differenti fattori genetici o biomolecolari individuali .
Predisposizione genetica
Alcune malattie ereditarie del cuore sono associate a elevata incidenza di fibrillazione atriale: la sindrome del QT lungo, la sindrome del QT breve, la sindrome di Brugada, la cardiomiopatia ipertrofica. Sono state identificate anche forme familiari di fibrillazione atriale associate a mutazioni geniche. I geni implicati sono quello del peptide natriuretico atriale, il gene SCN5A del canale del sodio, del canale del potassio, loci vicini ai geni PITX2 e ZFHX3, il gene PRKAG.
Rimodellamento
Il tessuto atriale, una volta instauratasi la fibrillazione va incontro ad un “rimodellamento elettrico” e “strutturale”, cioè a modificazioni prima delle caratteristiche elettrofisiologiche e poi della struttura del miocardio. Queste modificazioni divengono via via maggiori e stabili in correlazione alla durata dell’aritmia, così da diminuire la probabilità di ripristinare il ritmo sinusale normale o di mantenerlo dopo la cardioversione. Infatti è ormai accettata la frase: «la fibrillazione atriale promuove la fibrillazione atriale» (‘’AF begets AF’’).
Rimodellamento elettrico
Consiste in modificazioni elettrofisiologiche delle fibre muscolari miocardiche: accorciamento del periodo refrattario atriale effettivo (ERP), perdita dell’adattamento dell’ERP alla frequenza cardiaca, rallentamento della velocità di conduzione atriale, disomogeneità della velocità di conduzione e del l’ ERP nelle varie fibre atriali, perdita dell’adattamento della durata del potenziale d’azione alla frequenza cardiaca. Dal punto di vista molecolare, alla base di queste modificazioni ci sarebbero variazioni delle correnti ioniche di membrana indotte dalla fibrillazione atriale. In particolare sono state dimostrate diminuzione del ICaL Ito e Ikur, aumento di Ik1, IkACh e Iks. L’aumento del calcio intracellulare porta all’ attivazione della Calcineurina Ca-dipendente e del sistema kinasi II Calcio/Calmodulina (le stesse vie sono coinvolte nell’apoptosi o morte cellulare. È stata dimostrata anche l’iperfosforilazione della Connessina 43 con alterazione della conduzione del potenziale d’azione nelle giunzioni tra i miociti.
Rimodellamento strutturale
La fibrillazione atriale causa fibrosi interstiziale del tessuto atriale e, a sua volta, la fibrosi facilità il perpetuarsi della fibrillazione atriale. Questo circolo vizioso è stato dimostrato in modelli animali e nell’uomo. Biopsie dell’atrio hanno dimostrato fibrosi sia in cuori scompensati, sia nella fibrillazione atriale isolata; e la quantità di fibrosi aumenta con la durata dell’aritmia. La fibrosi interstiziale dell’atrio sembra legata all’attivazione di due vie regolatorie: il sistema renina-angiotensina e il fattore di crescita TGF-β1 (Transforming Growth Factor-β1). Essi si attivano in risposta allo stretching di parete e nello scompenso cardiaco. Queste osservazioni sono particolarmente importanti per la dimostrazione dell’efficacia dei farmaci ACE-inibitori nel rallentare la cronicizzazione della fibrillazione atriale.
Alla base del rimodellamento elettrico e strutturale sembrano esserci anche altri due meccanismi: l’aumento dello stress ossidativo e l’intervento di fattori dell’infiammazione. È stato dimostrato in modelli sperimentali di fibrillazione atriale l’aumento della ossido nitrico sintetasi endoteliale e della nicotinammide adenina dinucleotide fosfato ossidasi (NOX) che portano all’aumento di superossidi e perossidi, responsabili di attivazione di infiammazione, apoptosi e fibrosi. Le stesse vie possono essere coinvolte nella regolazione dei canali ionici di membrana e nella regolazione del calcio intracellulare. Inoltre sono state correlate al tumor necrosis factor-α, alla interleuchina 1β, e alle metalloproteinasi (MMPs-matric matrix metalloproteinases). Nella fibrillazione atriale clinica possono essere aumentati i marker di infiammazione.
Caratteristiche emodinamiche
Nel normale ritmo cardiaco, l’impulso generato dal nodo senoatriale causa la contrazione del muscolo cardiaco e permette il pompaggio del sangue. Nella fibrillazione atriale, gli impulsi elettrici che danno luogo alla contrazione degli atri si attivano in maniera totalmente caotica e frammentaria dando origine a multipli fronti d’onda e a contrazioni disorganizzate e frammentarie. Queste contrazioni del miocardio atriale sono inefficaci dal punto di vista emodinamico, per cui la funzione di pompa del cuore, esercitata principalmente dalle contrazioni ventricolari, perde il contributo della sistole atriale. In assenza di altre cardiopatie questo non incide in maniera rilevante sulla funzione di pompa, infatti il contributo della contrazione atriale si aggira intorno al 20-30% del volume telediastolico totale.
Tuttavia, la perdita della contrazione atriale, l’irregolarità e spesso l’accelerazione del battito e l’aumento della pressione di riempimento possono compromettere la funzione ventricolare sinistra, in maniera variabile, sotto sforzo, e la tolleranza agli sforzi può essere pertanto ridotta. Inoltre, la fibrillazione atriale è un importante fattore di rischio per lo stroke (ictus) ischemico. Circa un quinto degli stroke è dovuto a questa aritmia. Essa costituisce anche un fattore di rischio per una riduzione della capacità cognitiva, per le ospedalizzazioni ripetute, e in generale può determinare una riduzione della qualità di vita.
La mortalità nei pazienti affetti da fibrillazione atriale è doppia rispetto a quella dei pazienti non affetti. La terapia antitrombotica è l’unica ad aver dimostrato una riduzione della mortalità in questi pazienti.
Meccanismi elettrofisiologici
Secondo la teoria delle multiple wavelet, numerosissimi fronti d’onda vengono condotti nella parete atriale in modo caotico, e vanno incontro a fenomeni di fusione e interazione reciproca. Tali eventi portano al continuo annullamento di fronti d’onda e alla generazione di nuovi fronti, in modo altrettanto caotico. Questo meccanismo consente il perpetuarsi dell’aritmia.
Clinica
Sintomatologia
Il sintomo classico della FA è la palpitazione: il paziente avverte un senso soggettivo di battito irregolare, che si può accompagnare a mancanza d’aria o svenimenti quando la frequenza del battito ventricolare diventa particolarmente elevata. In casi particolarmente gravi, un paziente già portatore di cardiopatia può andare incontro a scompenso cardiaco. L’astenia, cioè la stanchezza fisica, è un altro sintomo a volte presente nella FA.
Terapia
– FA parossistica in soggetto sano: Nel soggetto sano il ripristino del ritmo sinusale (cardioversione) avviene spontaneamente nel 60% dei casi circa, nelle prime ore dopo l’episodio acuto. Se non c’è cardioversione spontanea, si può tentare la cardioversione farmacologica somministrando farmaci antiaritmici come propafenone, flecainide o, in caso di concomitante presenza di cardiopatie strutturali, soprattutto riduzione della contrattilità, amiodarone. Questo in quanto gli antiaritmici di classe Ic (propafenone e flecainide) causano un’importante riduzione della contrattilità.
– FA in cardiopatico che non mostra insufficienza cardiaca: la conversione a ritmo sinusale (ritmo normale) può avvenire tramite la somministrazione di propafenone o amiodarone, nel caso non si riuscisse ad ottenere un ritmo sinusale va programmata una cardioversione elettrica. Prima di sottoporre il paziente a cardioversione è opportuno – al fine di prevenire il distacco di trombi dagli atri, con conseguenti embolie – un adeguato trattamento anticoagulante, per esempio, con eparina, se l’aritmia è insorta da meno di 48 ore o con la terapia anticoagulante orale, usando il warfarin o l’acenocumarolo, in tutti gli altri casi.
– FA in soggetto con insufficienza cardiaca: il ripristino di un ritmo sinusale deve essere ricercato utilizzando la cardioversione elettrica esterna.
Se non si è potuto ottenere la cardioversione di una FA, oppure si è di fronte a una FA permanente, la terapia dovrà mirare al controllo della frequenza cardiaca con farmaci come la digitale, i betabloccanti, il verapamil o il diltiazem mentre il rischio di tromboembolia verrà ridotto con l’utilizzo di anticoagulanti orali, che fino ad ora erano rappresentati dal warfarin e l’acenocumarolo. Tali farmaci però richiedono il controllo periodico del livello di anticoagulazione attraverso dei prelievi di sangue.
Recentemente sono stati approvati dei farmaci anticoagulanti, che non necessiteranno più dei controlli ematologici; tali nuovi farmaci, dabigatran, rivaroxaban e apixaban, sono stati valutati, rispettivamente, nei seguenti studi: RE-LY, ROCKET-AF e ARISTOTELE.
È intuibile che la semplificazione nel controllo della terapia cronica, è il punto di forza di tali nuove sostanze. Le indicazioni al loro utilizzo, al momento, sono fondamentalmente, la prevenzione dello stroke nella fibrillazione atriale cronica e la prevenzione del tromboembolismo (trombosi venosa profonda ed embolia polmonare nella chirurgia ortopedica).
In alcuni casi, quando sia danneggiato il fascio di conduzione verso i ventricoli e quindi sia particolarmente bassa la frequenza cardiaca, si provvederà all’impianto di un pacemaker definitivo. In casi di FA cronica o recidivante in pazienti selezionati, nei quali non si riesce a mantenere nel tempo un ritmo sinusale, si propone, in questi ultimi anni, la ablazione transcatetere con radiofrequenza: questa metodica attualmente è efficace in circa il 70% dei casi.
Tra i nuovi farmaci, per la cardioversione farmacologica, vi è il vernakalant, approvato per l’uso in Europa nel 2010.
FIBRILLAZIONE VENTRICOLARE
La fibrillazione ventricolare (FV o VF) è una aritmia cardiaca rapidissima, caotica che provoca contrazioni non coordinate del muscolo cardiaco dei ventricoli nel cuore. Il risultato è che la gittata cardiaca cessa completamente. La fibrillazione ventricolare è uno dei quattro tipi di arresto cardiaco (fibrillazione ventricolare, tachicardia ventricolare senza polso, asistolia, attività elettrica senza polso o pulseless electrical activity (PEA).
La fibrillazione ventricolare è un’emergenza medica. Con l’insorgenza di questa aritmia, la circolazione sanguigna cessa, si ha quindi arresto cardiocircolatorio, contemporaneo arresto respiratorio e morte.
La fibrillazione ventricolare (FV) è una delle principali cause di arresto cardiaco e morte cardiaca improvvisa. Le fibre muscolari ventricolari si contraggono in modo casuale, invece di contrarsi simultaneamente, dunque il ventricolo non riesce a pompare il sangue nelle arterie e nella circolazione sistemica.
La fibrillazione ventricolare, responsabile di molte morti nel mondo occidentale, è principalmente dovuta a disturbi cardiaci ischemici. Nonostante numerose ricerche, la natura profonda di questa aritmia non è stata compresa appieno. La maggior parte degli episodi di FV avviene in pazienti già affetti da altre patologie cardiache, ma talvolta si presenta anche in soggetti senza precedenti. Dovranno essere svolte ancora delle ricerche per chiarire il meccanismo della fibrillazione ventricolare.
Meccanismi della fibrillazione ventricolare
La fibrillazione ventricolare è stata descritta come “attività caotica, asincrona e frazionata del cuore”. Una definizione più completa è quella di una “attività elettrica turbolenta e disorganizzata del cuore tale da causare un cambiamento continuo in forma, ampiezza e direzione del tracciato elettrocardiografico”.
La fibrillazione ventricolare si verifica più frequentemente in soggetti predisposti e, nella maggior parte dei casi, è la manifestazione di una patologia ischemica cardiaca. La fibrillazione ventricolare si ha anche in pazienti affetti da cardiomiopatia, miocardite ed altre patologie a carico del cuore. Sono stati riportati casi di FV dovuti a scompenso elettrolitico ed overdose di sostanze cardiotossiche. Esistono tuttavia casi in cui la FV si verifica in assenza di altre patologie o cause evidenti, in questi casi si parla di fibrillazione ventricolare idiopatica.
La fibrillazione ventricolare idiopatica avviene con un’incidenza stimata dell’1% del totale degli arresti cardiaci extraospedalieri, nel 3%-9% delle fibrillazioni ventricolari non legate ad infarto del miocardio, e nel 14% delle FV in pazienti di età inferiore a 40 anni.
Alcune sindromi recentemente descritte, come la sindrome di Brugada, potrebbero fornire indizi per comprendere meglio i meccanismi alla base delle aritmie ventricolari. Nella sindrome di Brugada, si possono osservare nell’ECG risultante alcune modifiche tra le quali il blocco RBBB e l’elevazione del tratto ST dei contatti V1-V3, con una aumentata predisposizione alla morte cardiaca improvvisa.
L’importanza di queste osservazioni è che le teorie che cercano di spiegare la fisiopatologia e l’elettrofisiologia di questi disturbi devono tener conto dei casi di fibrillazione ventricolare in soggetti con un cuore apparentemente sano. Risulta evidente che ci siano dei meccanismi che non siamo ancora riusciti completamente a comprendere. Sono in fase di sperimentazione nuove tecnologie che permettano di compiere passi avanti in questo processo di comprensione.
Prevalenza
L’arresto cardiaco improvviso è una delle principali cause di morte nel mondo industrializzato. Ad esempio nel Regno Unito si registrano approssimativamente 70.000 – 90.000 morti cardiache improvvise all’anno, con tassi di sopravvivenza che raggiungono solo il 2%. La maggioranza di queste morti èdovuta a fibrillazione ventricolare secondaria ad infarto miocardico acuto, il cosiddetto “attacco di cuore”. Durante la fibrillazione ventricolare la quantità di sangue pompato dal cuore diventa praticamente nulla e, senza un pronto intervento, la morte sopraggiunge in pochi minuti.
Trattamento
La condizione può essere risolta da uno shock sincronizzato tramite scarica di corrente elettrica (scariche di defibrillatore a 100-250 joules), o da pacing ventricolare. In alcuni casi, quando non sia disponibile un defibrillatore, una FV precoce può essere convertita in un ritmo efficace con un pugno precordiale. Alcuni antiaritmici, come l’amiodarone e la lidocaina possono aiutare, ma a differenza della fibrillazione atriale, la FV raramente si risolve senza un defibrillatore, che tuttavia non è sempre efficace.
In pazienti ad alto rischio di fibrillazione ventricolare si è dimostrato utile l’uso di un defibrillatore-cardioverter impiantabile, un dispositivo elettrico che consente di prevenire la morte aritmica e che può permettere un controllo remoto costante delle condizioni del paziente.
Caratteristiche della forma d’onda della FV
La fibrillazione ventricolare può essere studiata analizzando la forma d’onda elettrocardiografica. Ogni forma d’onda può difatti essere descritta in termini di ampiezza e frequenza. I ricercatori hanno osservato questi parametri per verificare il meccanismo che porta a questa aritmia. Recentemente Gray ha ipotizzato, utilizzando l’analisi di Fourier, che la FV sia una manifestazione dell’effetto Doppler sui rotori di fibrillazione.
Spettro di potenza
La distribuzione di frequenza e potenza di una forma d’onda può essere espressa come spettro di potenza, in cui viene misurato il contributo delle diverse frequenze fondamentali. Sono dati significativi la frequenza di picco, ad esempio, o la frequenza mediana.
L’analisi degli spettri di frequenza trova altre applicazioni in medicina e cardiologia, come lo studio della variabilità della frequenza cardiaca, la diagnostica per immagini e l’acustica.
La fibrillazione ventricolare, nonostante la sua apparenza di onda casuale, ha una chiara dominante di frequenza con ampiezza di banda stretta, intorno ai 9-12 Hz, che varia nel tempo e a seconda dei farmaci somministrati.
DIGITALE
I digitalici fanno parte dei farmaci cardiocinetici, detti anche cardiotonici o cardenolidi, e sono sostanze estratte dai fiori della digitale, nome comune di diverse piante del genere Digitalis la più importante delle quali è la Digitalis purpurea; meno importanti la Digitalis alba e la D. lanata.
Derivati attivi
I derivati attivi sono principalmente due: la digossina e la digitossina. La digitonina è un altro glicoside digitalico che però non ha effetti sul cuore e viene principalmente sfruttato per il suo potere tensioattivo.
Le complesse molecole di questo gruppo di sostanze sono caratterizzate da una parte “attiva” rappresentata da una struttura fenantrenica e steroidea (un ciclopentanoperidrofenantrene), cui è legato ad una estremità un anello lattonico ed all’altra, in posizione 3, una sequenza di glucidi (digitossosio); è per la presenza di questi zuccheri che queste molecole sono dette glicosidi cardioattivi.
La molecola è discretamente lipofila, e la perdita dell’ossidrile in posizione 12 la rende ancora più lipofila e meno idrofila: da ciò deriva che la cinetica della digossina e del derivato deidrossilato digitossina differiscano, almeno per tempo di emivita e capacità di legarsi con legame stabile ai tessuti, ossia alle cellule muscolari (in particolare cardiache).
Come meccanismo d’azione, si deve tener conto del fatto che tali derivati sono veleni cellulari: la loro azione farmacologica deriva da ciò, ma ovviamente questo determina anche un’intrinseca pericolosità nell’impiego di tali sostanze. I digitalici hanno un’efficacia altissima, ma nel contempo sono dotati di una tossicità elevata e prolungata nel tempo: questo non è un fatto nuovo in farmacologia, infatti maggiore è l’efficacia di un farmaco, maggiore sarà la possibilità di effetti collaterali e più facilmente si andrà incontro a fenomeni di tossicità. Solo recentemente si è potuto contrastare la pericolosità dei digitalici con l’impiego di farmaci ad azione antidotica, che si somministrano in eventuali situazioni di iperdosaggio.
Meccanismo d’azione dei digitalici
La digitossina innesca una serie di fenomeni che è stato possibile chiarire solo nella prima metà degli anni novanta, dopo decenni di uso clinico.
Il meccanismo d’azione è conseguente al legame relativamente stabile tra il nucleo steroideo ed una frazione precisa della pompa sodio-potassio (Na+/K+ ATPasi) dei cardiomiociti. Questo legame determina l’inibizione del 10-30% dell’ATPasi di membrana, determinando un aumento del sodio intracellulare, ma con un rapporto Na+/K+ mantenuto.
Col blocco di più del 30% della pompa sodio potassio si hanno invece effetti tossici, poiché all’aumentare del sodio si ha una diminuzione relativa di potassio, viene abbassato il potenziale di membrana e aumenta la tendenza all’attività spontanea.
Il blocco della Na+/K+ ATPasi determina un incremento del sodio intracellulare che rallenta l’attività dello scambiatore Na+/Ca++, e pertanto aumenta la quantità di calcio che, al posto di venire trasportata fuori dalla cellula, è accumulata nel reticolo sarcoplasmatico ad opera della calcio ATPasi del reticolo sarcoplasmatico (SERCA).
Ad ogni ciclo cardiaco, durante la fase 2 (di plateau) del potenziale d’azione cardiaco, l’ingresso di calcio attraverso i canali del calcio di tipo L (long lasting) determina a sua volta il rilascio di calcio dal reticolo sarcoplasmatico in un fenomeno noto come rilascio del calcio indotto dal calcio (CICR dall’inglese calcium-induced calcium release). Una maggiore concentrazione di ioni Ca2+ a livello citoplasmatico favorisce il legame con la calmodulina, ed una maggiore funzionalità delle proteine contrattili.
In particolare, tramite la calmodulina, il calcio va ad interagire sui meccanismi di accoppiamento eccito-contrattile dell’actina e della miosina, aumentando così la forza di contrazione con cui avviene l’attivazione delle due molecole: tale aumento della forza moltiplicato per il numero delle cellule cardiache contrattili determina un generale aumento della forza di contrazione della muscolatura cardiaca: aumenta l’inotropismo.
Tutto questo avviene senza consumo di energia aggiuntivo, in pratica non vi è necessità di un aumentato apporto di ossigeno, che nelle condizioni di scompenso cardiaco, in cui viene maggiormente utilizzato il farmaco, determinerebbe un aggravamento della situazione di base.
È dunque molto importante che questa azione di aumento della forza di contrazione non richieda scambi energetici significativi.
Azioni dei digitalici
La digossina ha dunque un’azione inotropa positiva, ma agisce in modo non univoco sulla eccitabilità cardiaca o batmotropismo: sulle cellule miocardiche in vitro provoca un aumento dell’eccitabilità, che non è altrettanto “visibile” sul cuore in vivo. Altrettanto succede sulle cellule atriali, ma per compensare questa eccitabilità, ricordando sempre che i digitalici sono veleni cellulari, si deve tener conto che agiscono in maniera negativa, cioè rallentando la conducibilità sul nodo seno-atriale e sul nodo atrio-ventricolare, riducendo il primo effetto. Il rallentamento della fase di ripolarizzazione del nodo AV, viene evidenziato a livello di elettrocardiogramma di superficie con lieve, ma caratteristico, allungamento del tratto PQ o PR.
Questo fatto può costituire un problema, poiché a determinate dosi terapeutiche di digitalici si può arrivare facilmente all’intossicazione per i più svariati motivi, e quindi si può determinare una bradicardia importante.
Pertanto, gli effetti dei digitalici saranno: sulla contrazione di tipo inotropo positivo, come sulla formazione dell’impulso (batmotropi positivi), invece saranno negativi sulla conduzione (dromotropi negativi) e anche sulla frequenza (cronotropi negativi).
È proprio in questa ambivalenza che si sviluppano sia l’azione terapeutica sia gli eventi tossici, che possono essere conseguenti ad un iperdosaggio di questo tipo di sostanze.
La caratteristica azione dei digitalici si può osservare anche a livello elettrocardiografico: l’ECG assume un aspetto specifico, che ne caratterizza l’assunzione e non è indice di sovradosaggio. È infatti molto importante il reperto anamnestico di assunzione di tali farmaci, perché l’ECG potrebbe, specialmente nelle derivazioni laterali da V4 a V6, assumere delle alterazioni della fase di ripolarizzazione ventricolare sinistra: il tratto ST è discendente con un sottoslivellamento, che potrebbe mimare, in situazioni particolari, gli effetti di un’ischemia acuta sub-endocardica. Tale eventualità è nota ai cardiologi, che vengono aiutati nella diagnosi differenziale dalle informazioni e dai sintomi che il paziente riferisce.
Altra peculiarità di questi farmaci è la capacità di interferire contemporaneamente sul sistema parasimpatico, attraverso una attivazione della componente vagale, e sul sistema simpatico: gli effetti normalmente si bilanciano e vengono modulati dall’associazione di altri farmaci, specie nel paziente scompensato.
I digitalici hanno un’azione di stimolo nei confronti del parasimpatico, aumentano quindi la stimolazione vagale, che riveste fisiologicamente un’azione di tipo negativo sulla eccitabilità, sulla conduzione e sulla frequenza; ma è stimolato anche il sistema simpatico, infatti sistema parasimpatico e sistema ortosimpatico giocano meccanismi di compensazione, per cui l’attivazione dell’uno comporta conseguentemente una risposta dell’altro, che spesso si annullano.
Terapia con i digitalici
Il range terapeutico della digossina è tra 0,8 e 2,2 ng/ml. Si ricorda però il DIG trial (il principale studio sulla digossina) che ha documentato come valori di digossina tra 0,8 e 1,2 ng/ml erano correlati a minor incidenza di eventi cardiovascolari avversi. Pertanto al momento si raccomanda di mantenere un valore di digossinemia intorno ad 1,5 ng/ml. La tossicità della digossina può iniziare con concentrazioni ematiche superiori a 2,2 ng/ml. Il range terapeutico della digitossina è tra 14 e 16 ng/ml e una tossicità superiore a 30 ng/ml.
Si deve sempre considerare che l’azione dei digitalici non è immediata, e che la loro emivita è di 33/36h per la digossina e 5/7 giorni per la digitossina: esistono numerosi protocolli di terapia.
Per esempio, esiste anche una digitalizzazione rapida, che permette di raggiungere alti livelli di digitale circolante nel minor tempo possibile, utile quando si renda necessario raggiungere molto rapidamente, nell’arco delle 24-48 ore, il livello terapeutico: una dose adeguata, già elevata, utile nella digitalizzazione rapida, è la somministrazione di ~ 500 µg.
A regimi posologici le somministrazioni di digitalici possono andare dai 62,5 µg ai 250 µg /die (in commercio i dosaggi sono 0,0625, 0,125 e 0,25 mg).
Le preparazioni farmaceutiche sono tre: soluzione endovena (solo uso Ospedaliero), gocce (poco utilizzate per la difficoltà di dosaggio), compresse (sicuramente le più usate, anche perché con tre dosaggi ben distinti, si possono adattare alle esigenze del singolo paziente).
Effetti tossici della terapia con digitale
Col blocco di più del 30% della pompa sodio-potassio si ha un aumento degli effetti tossici, poiché all’aumentare del sodio si ha una diminuzione relativa di potassio, viene abbassato il potenziale di membrana e aumenta la tendenza all’attività spontanea.
In caso di iperdosaggi non accidentali, fino a poco tempo fa, l’esito era spesso infausto, nonostante i tentativi di salvare la persona mediante le procedure di depurazione del sangue. Oggi invece le cose sono leggermente migliorate, se ci si rende conto in tempo relativamente breve che c’è stato un’assunzione eccessiva della digitale (come nel tentato suicidio), si ricorre all’uso di un siero con anticorpi anti digossina, che agisce direttamente sul farmaco, lo complessa e lo inattiva: donde, la definizione di antidoto; questo ha portato ad una migliore gestione dei casi di iperdosaggio, anche se normalmente gli effetti nell’uso terapeutico sono raramente mortali. In effetti gli anticorpi anti-digossina (Fab) vengono utilizzati nelle assunzioni improprie e nei pazienti con gravi aritmie cardiache in corso di ipopotassiemia.
Ovviamente la somministrazione dell’antidoto deve essere abbastanza precoce, perché la digitale, una volta fissata ai tessuti, ha una permanenza estremamente lunga: la digossina viene eliminata per via renale in forma praticamente non metabolizzata, dopo aver “impregnato” il tessuto muscolare. Un grande tessuto di riserva è rappresentato dalla muscolatura scheletrica, che non risente allo stesso modo dell’azione dei digitalici ma che può legarli e poi rilasciarli nuovamente in circolo in forma attiva per un tempo molto prolungato.
I digitalici hanno effetti collaterali molto fastidiosi, anche di discreta intensità, ma non sempre tossici: in primo luogo hanno effetti a livello dell’apparato digerente spesso caratterizzato da intolleranza gastrica e nausea; spesso vi è anche una componente di tipo nervoso, ma questa è presente nei livelli di tossicità acuta.
Nella struttura dei digitalici è rappresentata anche una struttura steroidea, che può dar luogo a derivati idrossilati in posizione 3 e 4 oppure 2 e 3: questa parte della molecola ricorda ora le molecole di alcune catecolamine, in particolare della dopamina. La dopamina, se raggiunge determinate strutture come la Chemoreceptor Trigger Zone, determina nausea e vomito: pertanto, tra gli effetti a livello gastroenterico caratteristici dell’azione della digitale vi è un intenso senso di nausea, una alterazione della percezione degli odori e del senso del gusto, che può arrivare sino al vomito.
Accanto a questi effetti ve ne sono altri a livello oculare (la visione può diventare confusa, si può provare una particolare suscettibilità, fastidio per la luce), ed a carico del Sistema Nervoso Centrale (incubi, senso di confusione, cefalea, senso di fastidio, …).
Quando non erano disponibili i radioimmunoessay, si dovevano attendere proprio gli effetti secondari e tossici per la sicurezza di esser giunti alla dose efficace di digitalizzazione, deducendone dunque i livelli ematici.
Insomma, due grandi progressi sono stati la messa a punto di un antidoto e la possibilità di valutare la digossinemia (la concentrazione ematica di digossina) attraverso radioimmunoessay
Qui sono ricordate in maniera schematica le azioni della digitale sulla funzione elettrica cardiaca:
La problematica relativa alla facilità di sovradosaggio ed eventuale intossicazione, è racchiusa negli effetti numerosi e “contrastanti” della digitale sul muscolo cardiaco e sulle vie elettriche. In effetti il farmaco viene utilizzato a dosi terapeutiche, per l’effetto inotropo e cronotropo, ma, se arriviamo a livelli tossici, l’influsso negativo si vedrà sul batmotropismo e sul dromotropismo, che normalmente ne risentono in modo ridotto. Esemplificando potremmo dire che gli effetti terapeutici positivi (riduzione della frequenza cardiaca e aumento di contrazione del muscolo cardiaco) ai dosaggi normali, vengono sostituiti dagli effetti tossici negativi (aumento dell’eccitabilità e della conduzione) nei sovradosaggi.
Le condizioni più pericolose portano ad aritmie cardiache gravi che vanno dal rallentamento eccessivo del battito cardiaco (aritmie ipocinetiche), all’accelerazione dello stesso (aritmie ipercinetiche), sino al flutter e alla fibrillazione ventricolare.
Relazioni struttura – attività
L’attività farmacologica dei glicosidi è dovuta alla componente steroidea, in quanto le genine libere provocano gli stessi effetti del glicoside. Se il nucleo ciclopentanoperidrofenantrenico è fondamnetale per la farmacodinamica, però, zuccheri diversi comportano significative differenze farmacocinetiche.
È fondamentale sottolineare come, nonostante la connettività sia la medesima, la struttura tridimensionale dei digitalici è profondamente diversa dagli ormoni steroidei in quanto sono diverse le giunzioni che legano i diversi anelli. Per l’affinità ai recettori nucleari degli ormoni steroidei (ad esempio il recettore degli estrogeni) è cruciale che il backbone steroideo presenti giunzioni di tipo colestanico, ovvero con i 4 anelli approssimativamente complanari. Nei digitalici le giunzioni tra gli anelli A e B e tra gli anelli C e D sono “cis”, mentre la giunzione B-C è di tipo “trans”; ciò conferisce al nucleo tetraciclico una forma ad “U” che ottimizza l’interazione col sito “B” di legame alla sodio-potassio ATPasi. Importanti per l’attività sono i sostituenti idrossilici in 3β e 14β.
I derivati vegetali (come i digitalici) sono caratterizzati da un anello lattonico a 5 termini di tipo butenolidico, mentre i derivati animali (com il bufadienolide) hanno lattoni a sei termini di tipo cumarinico. Questa non differenza non provoca grandi differenze di attività, anzi, si sono dimostrati attivi anche derivati non ciclici, a patto che siano mantenuti un accettore di legami ad idrogeno (corrispondente al carbonile lattonico) ed un carbonio elettronattrattore, idealmente in beta. Si è osservato, infatti, che derivati esteri lineari erano attivi solo se α-β-insaturi (per la presenza o meno del carbonio elettronattrattore). Analogamente i derivati acidi non erano attivi, mentre i nitrili sì in quanto in grado di accettare legami ad idrogeno.
Per quanto riguarda la cinetica del docking, esso inizia con un’interazione elettrostatica a lungo raggio tra il sito detto “A” della pompa sodio-potassio ed il lattone, quindi si instaurano le due interazioni di cui sopra. Successivamente il nucleo steroideo stabilisce interazioni di van der Waals con il sito “B” del “recettore”, e induce un cambiamento conformazione al sito “D” che si ritiene sia legato all’attività (ovvero all’inattivazione della pompa). Inoltre anche il primo residuo zuccherino può instaurare delle interazioni aggiuntive (legami ad idrogeno ed interazioni idrofobiche) con un ulteriore sito, detto “C”.
Modifiche emisintetiche
Sono state tentate diverse modifiche di semisintesi sui digitalici nel tentativo di migliorarne il profilo farmacologico. Tra gli approcci seguiti si segnalano:
– il ricorso ad amminozuccheri (come nel caso del composto ASI-222);
– l’inversione del lattone (come nell’actodigin);
– alchilazioni e acilazioni dei derivati zuccherini (β-acetildigossina, pentigossina, meproscillarina ecc.).
CHINIDINA
La chinidina è un farmaco antiaritmico, appartenente alla classe Ia di Vaughan Williams. È un alcaloide estratto dalla corteccia dell’albero Cinchona.
È un diasteroisomero della chinina. Avendo strutture molto simili, presentano simili, ma opposte, proprietà stereochimiche, tali da essere definiti quasi-enantiomeri.
È utilizzata nel trattamento delle aritmie sopraventricolari, come la fibrillazione e il flutter atriale. È anche un inibitore della glicoproteina P (MDR1 o ABCB1) a livello della barriera ematoencefalica che è un trasportatore ABC implicato nell’eliminazione di xenobiotici.
CALCIO – POTASSIO
FISIOLOGIA DEL SISTEMA SPECIFICO DI CONDUZIONE
In condizioni normali,l’attivazione del cuore è dovuta ad un impulso che origina in una cellula o in un gruppo di cellule,costituenti il pacemaker e dalla propagazione di questo impulso a tutte le fibre degli atri e dei ventricoli.
L’arrivo del segnale elettrico alle fibre contrattili del cuore determina la contrazione.
La regolare attività ritmica richiede la presenza di fibre automatiche specializzate.
La contrazione coordinata degli atri e dei ventricoli richiede un sistema di distribuzione dell’impulso elettrico alle fibre muscolari di queste cavità in frequenza appropriata e al tempo giusto.
Entrambe queste funzioni sono esercitate da gruppi specializzati di fibre cardiache.
L’automaticità che è alla base dell’attività di pacemaker è una proprietà unica non solo delle fibre del nodo seno-atriale ,ma anche degli altri gruppi di fibre atriali specializzate e delle cellule del sistema di His – Purkinje.
Il sistema di conduzione comprende le fibre delle vie internodali ,il fascio di Bachmann, il nodo atrio-ventricolare,il fascio di His e le sue branche e le fibre periferiche di Purkinje.
Le cellule del sistema di conduzione,oltre ad avere loro caratteristiche istologiche,hanno anche proprietà elettriche particolari.
Queste proprietà e la base dell’attività elettrica delle fibre cardiache possono essere meglio comprese registrando i potenziali transmembrana per mezzo di microelettrodi intracellulari.
Le cellule cardiache hanno una composizione ionica intracellulare diversa da quella dei liquidi extracellulari.
Per le nostre considerazioni,gli ioni più importanti sono il sodio (Na+) ed il potassio (K+).
L’entità relativa delle concentrazioni di questi ioni è indicata dalle dimensioni dei simboli riportate nell’illustrazione.
La concentrazione intracellulare del K è maggiore di circa 30 volte quella della concentrazione extracellulare,mentre la concentrazione intracellulare del Na è di circa 30 volte inferiore.
Data questa differenza,la membrana della fibra a riposo è polarizzata.
Questo potenziale transmembrana a riposo può essere misurato inserendo un microelettrodo nella cellula e misurando la differenza di potenziale in corrispondenza alla membrana.
Ciò è indicato schematicamente sia come misurazione di voltaggio (-90 mv) che come traccia oscilloscopica.
Con l’inizio dell’eccitazione,si ha una modificazione della permeabilità della membrana che permette agli ioni Na,che portano una carica positiva,di muoversi rapidamente secondo il loro gradiente elettrochimico,attraverso la membrana ed entrare nella fibra.
Questo rapido ingresso di cariche positive del Na+ inverte il potenziale transmembrana,in modo che l’interno diventi 20-30 mv più positivo dell’esterno.
La risultante modificazione del potenziale transmembrana è rappresentato come un innalzamento (fase 0) della traccia oscilloscopica.
Dopo l’eccitazione,vi è un periodo di durata variabile ( fase 1 e 2 ) in cui il potenziale di membrana rimane prossimo allo zero. Questo periodo è dovuto alla diminuzione della permeabilità al Na e al K.
Successivamente ha luogo la ripolarizzazione,cioè il ripristino del normale potenziale di riposo in seguito ad un aumento della permeabilità per il K con l’espulsione di K+ dalle cellule,questa è la fase di ripolarizzazione (fase 3) .
La fase 3 è seguita da un periodo di potenziale di riposo stabile (fase 4),fino all’arrivo della successiva onda di eccitazione.
POMPA SODIO-POTASSIO
Al fine di mantenere i normali gradienti di concentrazione sia di sodio che di potassio,è necessario che ci sia un sistema di trasporto attivo,indicato come “pompa”,che provveda ad espellere il sodio che è entrato e ad immettere una quantità equivalente di potassio.
La pompa è rappresentata da una ruota con sbarrette che immette potassio e fa uscire sodio.
Durante la propagazione dell’impulso,questi processi sono continui e l’attività si diffonde dal suo punto di origine a tutte le fibre eccitabili.
Adesso mettiamo a confronto,per capire meglio,i vari andamenti dei potenziali d’azione.
1 – nodo s-a
2 – muscolatura atriale
3 – nodo a-v
4 – fascio comune
5 – branche del fascio
6 – fibre di Purkinje
7 – muscolatura ventricolare
Potenziali transmembrana delle fibre specifiche
1) nodo seno-atriale ed atrio
Come si può vedere dall’andamento della riga blu,a confronto con quella rossa di sinistra,si rilevano alcuni fatti importanti:
a – non vi è un potenziale di riposo costante
b – dopo la ripolarizzazione il potenziale transmembrana diminuisce spontaneamente
c – vi è una lenta depolarizzazione spontanea che causa l’attività automatica delle fibre del seno,
l’aumento del potenziale d’azione è lento. Ciò causa una conduzione lenta dell’impulso nell’ambito del nodo.
2) muscolatura atriale
a – Il potenziale d’azione registrato da una comune fibra della muscolatura atriale mostra un rapido aumento.
b – Il potenziale di riposo è costante
3) Nodo atrio-ventricolare
I potenziali d’azione registrati da fibre del nodo a-v assomigliano a quelli delle fibre del nodo seno-atriale.
La diffusione molto lenta dell’impulso del nodo a-v è dovuta in buona parte alla lenta ascesa del potenziale d’azione.
4) Sistema di His-Purkinje
I potenziali d’azione registrati da fibre di questa parte del sistema specifico di conduzione,hanno tre importanti caratteristiche.
– l’aumento del potenziale d’azione è rapido e così la conduzione
– la durata del potenziale d’azione è grande e pertanto il periodo refrattario è lungo
– in condizioni appropriate,ognuna delle fibre di questo gruppo può presentare una depolarizzazione spontanea,fase 4 e diventare un pacemaker automatico.
Sequenza dell’eccitazione ed elettrocardiogramma
I sette tracciati dei potenziali d’azione transmembrana indicano la normale sequenza dell’attivazione cardiaca in relazione all’elettrocardiogramma schematico riportato sotto.
La colorazione della traccia dell’ECG suggerisce le relazioni temporali di ogni tipo di potenziale d’azione con l’elettrocardiogramma normale,ed indica anche il contributo dell’attività elettrica di ogni tipo cellulare all’ECG registrato sulla superficie corporea.
– una attività di fibre pacemaker nel nodo seno-atriale precede (blu) la prima indicazione di attività nell’elettrocardiogramma (onda P) e non può essere dimostrata nelle derivazioni della superficie del corpo.
– una depolarizzazione delle fibre muscolari atriali,provoca l’onda P
– una ripolarizzazione delle fibre atriali di solito non si rileva sull’ECG
– l’attività raggiunge la parte superiore del nodo a-v precocemente durante l’onda P (parte arancione dell’onda P) . La propagazione attraverso il nodo è lenta e l’eccitazione delle fibre del fascio di His non ha luogo se non nella parte media dell’intervallo P-R (parte rossa).
– la diffusione dell’attività attraverso il fascio comune,le sue branche e le fibre del sistema di Purkinje ,precede l’eccitamento della muscolatura ventricolare.
– nell’ECG non vi sono segni dell’eccitamento delle fibre del sistema di His-Purkinje
– il complesso QRS è dovuto all’attivazione delle fibre muscolari dei ventricoli
– il segmento S-T isoelettrico,corrisponde al plateau del potenziale d’azione ventricolare e l’onda T è dovuta ripolarizzazione del ventricolo
– l’onda U corrisponde alla ripolarizzazione delle fibre specifiche delle branche del fascio e del sistema di Purkinje
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